Il segreto della miniera, di Hanna Slak

Immerso in un realismo concreto e lineare, l’opera prima dell’autrice slovena è il racconto di un complesso processo di pacificazione personale con le ferite di un passato ancora irrisolto.

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Alija è un ragazzino bosniaco costretto, a causa della guerra, ad abbandonare il suo villaggio. Quando sarà ormai cresciuto e sarà anche padre di due figli, farà il minatore. Nella sua memoria resterà la guerra che ha letteralmente dilaniato un Paese intero e oggi continua ad essere ombra cupa sulla sua vita. È il ricordo della sorella Mirsada, morta nel genocidio perpetrato contro la sua gente nel villaggio d’origine a non dargli pace.
Oggi il suo presente è di nuovo in bilico, la crisi incalzante mette in forse il suo posto di lavoro. Sarà incaricato di ispezionare una miniera chiusa da anni, ma un altro orrore lo attende in quelle profondità e la sua scoperta diventerà scomoda per le autorità del luogo che hanno fretta di chiudere la vicenda e seppellire per sempre un pezzo di storia che giace dimenticato in fondo a quei pozzi.
La regista e sceneggiatrice slovena Hanna Slak, qui alla sua prima prova nel lungometraggio, sa costruire un dramma in crescendo nel quale, intersecando la recente storia dei Paesi balcanici, con quella meno recente della seconda guerra mondiale, esalta il ruolo del suo protagonista che vive e combatte affinché quel “restare umani”, non sia solo uno slogan, ma una ragione di vita. Il realismo concreto del film finisce con il riflettere la verità dei fatti sui quali è fondato e che hanno visto come protagonista della vicenda il vero minatore Mehmedalija Ali che come il personaggio del film perse tutti i parenti maschi nella strage di Srebrenica del 1995. Gli salvò la vita l’essere già emigrato in Slovenia. La scoperta che fece e che coinvolgeva direttamente la storia dell’ex Jugoslavia e oggi della Slovenia, testimoniava un altro genocidio commesso sui profughi sterminati dai partigiani di Tito.
La storia e la memoria sembrano sommergere il film condensando, in quell’accentuato e imprescindibile realismo che lo avvolge, il disagio del presente davanti alle colpe che la storia distribuisce. Alija si sente responsabile, ma anche colpevole della sua stessa sopravvivenza ed è questa l’angoscia che quotidianamente sembra letteralmente seppellirlo. Ci accorgiamo che il ricordo sembra avere un peso che si specifica in una misura personale e in una collettiva, condivisa che in questa prospettiva fatica ad essere accettata. La miniera, con i suoi cunicoli, le trappole, l’angoscia della costrizione e di un buio viscerale, diventa emblema e simbolo dello sprofondare nel proprio passato, dello scavo incessante alla ricerca di una via d’uscita, di una riconciliazione che sia riscatto personale ed emendazione di colpe. La necessità che Alija sente – e tutti gli Alija che in lui si riconoscono – è quella di dare pace al passato dal quale ancora oggi ci giunge l’eco di quella innocenza ferita e sanguinante che silenziosamente, ma profondamente, segna ancora il presente avvolgendo la sua e le nostre vite.

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Hanna Slak sa restituire l’inarrestabile inquietudine del suo protagonista, che mostra nella intensa interpretazione di Leon Lučev, le inguaribili ferite che lo segnano ma anche la sua salvezza che avviene con l’immergersi reale e metaforico nella miniera, rappresentazione della coscienza nella quale ritrovare il suo passato, per una pacificazione che però non trova adeguato riconoscimento nel sentire collettivo che non accetta ciò che il minatore ha scoperto in fondo a quella miniera. Al contrario di Alija, ciò che si vuole è invece il seppellire il passato, fare muro verso la memoria che diventa luogo inaccessibile, ma anche questione centrale nel rapporto tra passato e presente, in quelle ferite lasciate aperte che germinano con frutti malevoli nei nostri corpi sociali.
Hanna Slak, come accade ormai di frequente nelle storie che diventano soggetti per i film di quell’area geografica – come si diceva – immerge il suo film in un realismo lineare, quasi documentaristico dal quale è difficile astrarsi e che per questo diventa elemento ineludibile per ogni ragionamento che riguardi i temi e la struttura di queste opere. La necessità sembra essere quella di offrire una immediata riconoscibilità, di non doversi staccare da una quotidianità protettiva, domestica, intima e anche generosa di sentimenti, soprattutto familiari. Così accade anche in Il segreto della miniera, che ha il pregio di fare rifluire nella figura del protagonista il carico smisurato della vicenda di cui si trova ad essere protagonista. Nella realtà Mehmedalija Ali nelle sue ricerche, durate un paio d’anni, ha ritrovato in fondo ai pozzi della miniera ormai abbandonata, circa quattromila corpi compresi quelli di moltissimi bambini. È proprio davanti a questo orrore, che non poteva che fare correre il pensiero al suo villaggio, a quella spaventosa strage di Srebenica nella quale nel luglio del 1995 furono uccisi circa 8000 persone e che vide il vero Alija salvarsi per un puro caso che divenne anche la ragione del suo profondo senso di colpa. È qui che il film diventa omaggio silenzioso e personale, tutto condensato nella pensosa figura del protagonista, a quella ferita di immense proporzioni che ancora non può trovare guarigione nella mente di chi l’ha vissuta, nelle mente di chi, come l’operaio bosniaco, può ancora essere testimone di quella strage che avvenne nel cuore di un’Europa sempre più moderna, ma anche sempre più colpevolmente distratta e sorda verso il silenzio di tutti quegli innocenti che dentro i suoi confini hanno trovato una morte ingiusta e violenta.
Il cinema non può fare molto e, forse, in fondo non gli spetta nemmeno fare molto, ma il film di Hanna Slak, con la distribuzione di Cineclub Internazionale, si fa racconto dell’operazione di purificazione compiuta da Mehmedalija Ali sapendo mettere in scena con sintesi solo appena, a volte, un po’ eccessiva, le fasi di questo complesso processo che dal riconoscimento della colpa arriva alla sua emendazione e alla riconciliazione con la storia del proprio pesante passato.
È in questa dimensione che il piccolo film sloveno si fa intenso, sicuramente doloroso nell’accidentato percorso di Alija, ma decisivo nell’accettazione finale del passato, nella consapevolezza delle proprie radici per trasformare al meglio il presente che ci è dato.

Titolo originale: Rudar
Regia: Hanna Slak
Interpreti: Leon Lučev, Marina Redž, Zala Djuric, Boris Cavazza, Maj Clemenc, Lara Andrejević
Distribuzione: Cineclub Internazionale
Durata: 103’
Origine: Slovenia, 2017

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.71 (7 voti)
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