In Between Dying, di Hilal Baydarov

Un tappeto di segni che creano l’immagine di un universo segreto, misterioso. Ma non c’è l’esigenza di decifrare ogni cosa, perché il discorso è di un’evidenza e di una verità disarmanti. In concorso

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Davud è un ragazzo che, da Baku, attraversa in lungo e in largo con il suo motorino un paesaggio sconfinato, solitario e dolente. A ogni tappa, incontra una donna in cerca di liberazione. Da un marito violento o da un fratello tiranno, da un dolore del corpo o dell’anima. Liberazione che arriva, puntualmente, con la morte. Dove passa Davud c’è sempre qualcuno che muore. Ed è lui ad accendere la scintilla, quasi fosse un angelo vendicatore o un tanatalogo. Con un gesto di cura, una parola, una scia d’amore che conduce all’accettazione e alla scelta della fine. Ma, ovviamente, tutto coincide con la parabola del viaggio interiore del protagonista, che deve tornare a Baku e affrontare lo spettro della perdita. Ogni suo giro nelle distese azere è solo lo spazio vuoto che punteggia il pieno, l’attimo decisivo.

Hilal Baydarov sceglie la strada dell’apologo poetico e sfuma il discorso nell’allusività del simbolo. Stende un tappeto di segni che creano l’immagine di un universo segreto, misterioso. Ma non c’è l’esigenza di decifrare ogni cosa, per quanto sia forte la tentazione di cogliere la rete dei possibili rimandi, dei riferimenti, di vedere per intero la trama sotterranea che conduce alla forma e alla materia dell’idea. Perché, in fondo, il discorso è di un’evidenza e di una verità disarmanti. Solo l’amore libera dalla morte, aiutandoci ad accettarla. Ed è la morte a custodire il senso dell’amore. Siamo nel terreno miracoloso in cui il pensiero si fa atto di volontà e di fede. E c’è bisogno di una specie di inclinazione mistica per entrare in questo mondo, per abbandonarsi al flusso delle cose che accadono e non accadono, alle ripetizioni e alle differenze che segnano la struttura del racconto, quasi fossimo in presenza di una serie di episodi che si avvolgono in una spirale senza fine. Ma la ripetizione e la differenza segnano anche il ritmo delle immagini, piani fissi che, a poco poco, si aprono al movimento, al ritornello di una corsa in motorino. Un andamento musicale che detta il passo del rito e della preghiera, come un rosario o una danza sufi. E, all’improvviso, cominci ad avvertire un qualcosa di ipnotico, un inizio di trance, una sorta di sospensione e di non padronanza. E allora pensi: stai cedendo alla stanchezza o stai uscendo, finalmente, dalla gabbia del tuo corpo, per diventare, per intero, anima e cuore, per andartene finalmente alla deriva, a predicare o a vedere faccia faccia?

Baydarov gioca una partita impossibile con il tempo. È stato allievo di Béla Tarr e ne avverti la presenza ai margini di quelle inquadrature larghe fino all’inverosimile. E c’è, dalla sua parte, anche Carlos Reygadas come produttore, a sancire il definitivo rito di passaggio. Ma, alla fine, lo sguardo è assolutamente personale, tanto che dietro intuisci tutta l’urgenza di un vissuto, di un’esperienza che nutre e si mescola con il cinema. “Ci hai messo così tanto”, dice alla fine la madre di Davud. E sembra, quasi, di risentire l’eco di Bresson “che strano cammino ho dovuto fare per arrivare sino a te”. L’amore o la morte, che differenza fa in fondo. Siamo di fronte, in ogni caso, all’inevitabile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (4 voti)
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