Julie Andrews, The Sound of Talent
La carriera unica di un’icona dall’indiscusso talento che ha sempre messo in gioco la propria immagine, senza temere i cambiamenti. Il nostro profilo in occasione del Leone d’oro a #Venezia76
“E nonostante quello che lei pensa, Monsieur Labisse, ci sono professioni dove la pratica riesce a far raggiungere la perfezione”. Victoria Grant – Victor Victoria
“Enough, enough” dice Julie Andrews, invitata alla Mostra del Cinema di Venezia per ritirare il Leone d’oro alla carriera: il pubblico la accoglie con urla e applausi infiniti, pieni di affetto ed emozioni sincere. Non potrebbe essere altrimenti. Ci sono artisti che superano le semplici categorie – attore di cinema, di teatro, regista, doppiatore, scrittore e diventano icone circondate da un’aura di profonda bellezza e umanità. Nel caso di Dame Julie Andrews sono stati l’indiscusso talento, prima di tutto canoro, e il costante rifiuto di aderire a un’immagine pubblica estremamente riconoscibile a rendere possibile ciò. Certo, è difficile non immaginare Andrews con un ombrello dal manico a pappagallo che dalla sua altezza praticamente perfetta redarguisce gli indisciplinati; o mentre corre su una distesa verdeggiante intonando la celebre Hills are Alive. Mary Poppins, suo esordio cinematografico per il quale vinse l’Oscar, e Tutti insieme appassionatamente sono del resto classici della storia del cinema. A questi se ne aggiunge almeno un terzo: My Fair Lady, il musical di Broadway, che vede una Andrews diciannovenne nei panni della protagonista Eliza Doolittle. Nonostante lo strepitoso successo Jack Warner, produttore della versione cinematografica, non vuole rischiare e affida la parte a Audrey Hepburn. Caso o fortuna vogliono che lo stesso anno Andrews sia notata da Walt Disney in Camelot e venga scelta per interpretare la tata della famiglia Banks. Memorabili le sue parole alla cerimonia dei Golden Globe del 1964, dove riceve il premio come Miglior attrice: “Finally my thanks to a man who made a wonderful movie and who made all this possible in the first place, Mr. Jack Warner”.
Andrews si afferma in un momento in cui il cinema statunitense sta cambiando volto; il potere decisionale dei produttori è preminente e d’altro canto gli attori hanno finalmente conquistato una loro indipendenza. Esempio di queste contraddizioni interne al sistema è Sipario strappato del 1966: i produttori impongono i protagonisti Paul Newman e Andrews a Hitchcock, che non li ritiene adatti al ruolo – due fisici americani fidanzati che fingono di essere spie comuniste nell’Europa della guerra fredda. Il film ha inoltre problemi di sceneggiatura e Newman, che fa parte della nuova leva di attori usciti dall’Actors Studio, invia a Hitchcock una lunga lista di dubbi e annotazioni circa la storia e il suo personaggio. Il film, per alcuni critici, viene considerato datato ma è comunque per Andrews un’occasione per mettersi alla prova con un personaggio diverso – la vediamo amoreggiare sotto uno spesso strato di coperte – e lontano dall’ambiente confortevole del vaudeville dove era nata e cresciuta (fu il patrigno, tenore, a notare per primo il suo talento e a darle lezioni di canto). Andrews cerca sin da subito di essere versatile: in Tempo di guerra, tempo d’amore (1964) è una donna “grottescamente sentimentale” che ha avuto molte avventure con gli uomini, e che si innamora di un ufficiale fannullone (James Garner) con il quale si abbandona a scene intense e passionali. Non deve sorprendere quindi la sua audacia nel non accettare il ruolo da protagonista in pellicole di sicuro successo quali Chitty Chitty Bang Bang, Pomi d’ottone e manici di scopa e altre simili, che l’avrebbero definitivamente inquadrata in un genere specifico.
Gli anni ’70 inaugurano invece un periodo di sperimentazione e trasformazioni: accanto alla scrittura di libri per l’infanzia e a show televisivi, in cui Andrews si presta a sketch con i Muppets e arriva perfino a triplicarsi, si affianca amorevolmente la figura di Blake Edwards, suo secondo marito e regista per oltre quindici anni di quasi tutti i suoi film (fa eccezione la classica commedia romantica E io mi gioco la bambina, con Andrews a fianco di un burbero Walter Matthau e di una dolcissima Sara Stimson). Lo sguardo di Edwards, tra il sofisticato il dissacrante e spesso malinconico, si sposa con un volto e un corpo che di volta in volta si mostrano altamente modellabili ed espressivi. A cominciare da Operazione Crepês Suzette che, pur inserendosi nella cornice familiare del music hall, svela la bellezza anche sensuale di Andrews – deliziosa la scena a letto con Rock Hudson, tra effusioni e diverbi linguistici (“My pet, that’s what I told you. It sounds like Suzette!”). Una sensualità che si fa protagonista nel Seme del tamarindo con Omar Sharif (ancora un amore tra spie) e che diventa sessualità voyeuristica e ironicamente sfacciata in 10 – un compositore alle prese con la crisi di mezza età (Oscar, tra l’altro, per le musiche al sodale Mancini). L’apice della satira edwardiana, su Hollywood e ovviamente su sé stesso, è S.O.B., storia di un produttore di successo che fa fiasco al botteghino con un musical per famiglie interpretato da sua moglie Sally/Andrews. I rimandi autobiografici sono molteplici, si rincorrono; e al grido ripetuto (nel doppiaggio italiano) di “Mary Poppins è morta” Andrews si decide a scoprire il seno e a infrangere il puro incanto della propria immagine. La trasformazione è in atto e si completerà nel successivo Victor Victoria, proiettato per l’occasione alla Mostra: un film che rappresenta un revival del musical e al tempo stesso la quintessenza della commedia degli equivoci – una donna che finge di essere un uomo che impersona una donna. Andrews si esprime liberamente sul palco sdoganando pregiudizi morali e ci offre una performance di recitazione, canto e ballo sublime. Edwards la dirigerà in altri due film, I miei problemi con le donne e Così è la vita, puntando questa volta il riflettore sulla controparte maschile (Burt Reynolds e Jack Lemmon) per sorridere amaramente delle sue ossessioni.
Il registro interpretativo di Andrews spazia considerevolmente anche nella fase più matura, sebbene siano meno i ruoli cinematografici: è una violinista malata di sclerosi multipla per Končalovskij e una moglie tradita che si ritrova a vivere A fine romance con un marito, Marcello Mastroianni, anche lui tradito. Gli anni 2000 vedono invece una riscoperta di Andrews da parte delle generazioni più giovani: il suo ritorno in Disney – è la regina Clarisse nella saga Pretty Princess e Mary Poppins nel corto Il gatto che guardò il Re; una collana di libri dedicata ai più piccoli – Andrews ha sempre sostenuto quanto sia stato importante da bambina leggere classici come Il mago di Oz e Piccole donne; la serie Netflix Julie’s Greenroom, nuovamente accanto ai celebri pupazzi di Jim Henson; e l’intensa attività di doppiatrice (Come d’incanto, le saghe di Shrek e Cattivissimo me, Aquaman). In realtà è stato proprio un film d’animazione il suo vero esordio cinematografico: nel ’52 uscì la versione inglese del meraviglioso e italiano La rosa di Bagdad e a dare voce alla protagonista fu una giovanissima Andrews; il titolo sarà The Singing Princess. La sua voce bianca dalla dizione impeccabile è inconfondibile e nella scena in cui la principessa si affaccia al balcone per cantare ai sudditi con le rondini che volano tra gli edifici risuona già, come per magia, la malinconica e solenne ninna nanna di Mary Poppins.
Un dono che era scolpito nel destino e che è stato intagliato fino a diventare una gemma. Sono tantissimi gli omaggi che il mondo del cinema e della musica hanno tributato a Julie Andrews e a quello che rappresenta. Nella cerimonia degli Oscar del 2015 Lady Gaga si esibisce cantando alcuni brani di Tutti insieme appassionatamente. La sfida è impegnativa e il confronto inevitabile, ma è Gaga a trionfare contro i numerosi detrattori, non senza sacrifici – ha dovuto allenare la voce per sei mesi consecutivi per raggiungere l’obiettivo. È uno spirito di dedizione che accomuna i grandi artisti e che alla fine li fa apparire naturali e sicuri di sé: uno dei ruoli più impegnativi nella carriera di Andrews in questo senso fu My Fair Lady, in cui doveva ripetutamente passare dal cantare e parlare in cockney ad avere una voce pura. E arriviamo al recentissimo seguito di Mary Poppins diretto da Rob Marshall, che nel 1995 aveva curato le coreografie del musical Victor/Victoria con protagonista proprio Andrews. Non è bastata l’amicizia e la stima tra i due a far sì che Andrews prendesse parte al progetto con un cameo: la sua decisione, motivata dal fatto di voler lasciare assoluto spazio alla nuova Poppins (Emily Blunt), è ancora una volta cifra incontrovertibile di un’artista che non insegue le mode (passeggere) e che resta coerente con il tempo e con un’immagine che non teme i cambiamenti.