Karlovy Vary 42 – Ultimi istanti di gesti, "Fay Grim" di Hal Hartley

Fay GrimFay Grim è un viaggio nel puro piacere della visione, in spazi che si infrangono e moltiplicano, che ne generano sempre altri, immagini shattered senza mai il bisogno concreto di disintegrarle, che si aprono a continue avventure della mente, a giochi che non chiedono di essere risolti. Dieci anni dopo Henry Fool (1997) Hal Hartley è tornato a raccontare le avventure dell’omonimo protagonista di quel film nel suo seguito, due ore di incalzante effetto-Hartley, luminosa partitura visiva e sonora che scioglie in immagini di sensuale limpidezza il labirintico intreccio narrativo

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Tra Femme fatale e David Lynch, reinventando gli spazi metropolitani di Parigi, Istanbul, Berlino, New York. Dieci anni dopo Henry Fool (1997) Hal Hartley è tornato a raccontare le avventure dell’omonimo protagonista di quel film nel suo seguito, Fay Grim, presentato all’International Film Festival di Karlovy Vary nella sezione Horizons. E se il lungometraggio precedente prendeva il titolo da quell’originale personaggio e osservava i fatti attraverso il suo punto di vista, il film che ne prosegue il percorso rovescia lo sguardo, parte dalla sua sparizione per costruisce una improbabile detection, che più complessa non potrebbe essere, vissuta, inquadratura dopo inquadratura e fin dal titolo, dal personaggio femminile di Fay Grim, l’ex moglie del fuggitivo Henry, ricercato dalla Cia perché i quaderni con i suoi appunti conterrebbero informazioni in grado di compromettere la sicurezza degli Stati Uniti…

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Fay, Henry e Simon Grim (l’uomo la cui vita cambiò dopo l’incontro con Henry, inseguendo il successo artistico, fino alla controversa ascesa alle vette del premio Nobel per la poesia) e i loro interpreti (Parker Posey, Thomas Jay Ryan, James Urbaniak) abitavano già gli spazi di Henry Fool. E si ritrovano in Fay Grim, due ore di incalzante effetto-Hartley, luminosa partitura visiva e sonora (la musica originale, che crea un ulteriore commento di coinvolgente straniamento, è dello stesso regista) che scioglie in immagini di sensuale limpidezza il labirintico intreccio narrativo, o meglio lo scioglie disegnando per esso, nella sua visualizzazione, un puzzle giocoso e teorico dove i corpi e i luoghi interagiscono in superficie e profondità – come appunto nella Femme fatale concettuale di Brian De Palma. Mentre un oggetto misterioso, quasi come la scatola vuota lynchiana di Mulholland drive, passa di mano in mano, tutti vi sbirciano dentro per dedurne una moltitudine di significati (da orge porno a scritte in lingue misteriose, ma forse, come tutte le cose più inaccessibili, contiene una verità immediata, la frase che un personaggio crede di leggere, o davvero legge: An honest man is always in trouble…). Si tratta di una sorta di rudimentale e infantile scatola per produrre immagini, una macchina pre-cinema dentro la quale osservare immagini da evocare girando una manovella. Strumento del piacere della visione intimo (il figlio adolescente di Fay la usa a scuola per visioni eccitanti, e viene espulso…) o usato per indagare su una trama spionistica internazionale che intreccia ogni sorta di immaginario globalizzato. Un espediente, quel piccolo, tascabile, oggetto, cui sarà possibile accedere, tranne che allo spettatore. Che dovrà credere a quello che i personaggi menzogneri di Hartley gli diranno, senza poter verificare in prima persona. Lì, in quel controcampo interno alle inquadrature, lo sguardo voyeuristico dello spettatore non è ammesso.

Fay Grim è un viaggio nel puro piacere fashon della visione, in spazi che si infrangono e moltiplicano, che ne generano sempre altri, immagini shattered senza mai il bisogno concreto di disintegrarle, che si aprono a continue avventure della mente, a giochi che non chiedono di essere risolti. Hartley lo dice esplicitamente, in una delle didascalie che si sovrappongono (godardianamente, intessendo memorie con storie di cinema dentro e fuori la filmografia hartleyana) alle immagini, nell’equazione impossibile da risolvere fra parole-segni che, come i personaggi e i set, si rincorrono null’altro che generate da se stesse. Il risultato dell’equazione hartleyana non potrà quindi che essere un “?”, segno che appare sullo schermo a conclusione di un impossibile percorso lineare, impossibile nella sua scientificità. Un imprescindibile punto interrogativo. Come tradurre dunque in parole la trama di Fay Grim? Nella sua essenza: una donna, Fay (una magnifica Parker Posey, perfetto segno dei corpi hartleyani carnali e astratti), vede la propria vita, già di per sé spostata, sconvolta dall’irruzione di due uomini della Cia (uno è Jeff Goldblum) sulle tracce dell’ex marito e appunto dei suoi preziosi diari. Una mission impossible che porterà Fay prima a Parigi e poi a Istanbul, fra alberghi di lusso (ancora la memoria va a Femme fatale…) e sotterranei custoditi da potenti arabi, libri da nascondere in cassaforte e cappotti seducenti che non sono solo tali, una giovane donna dell’Est Europa (che sarà uccisa a freddo da un poliziotto in una scena mélo che espande lo spazio e il tempo circostanti – è Elina Löwensohn, che per Hartley ha già recitato in Theory of achievement, Simple men, Amateur, Flirt) e un commerciante turco cieco che conosce il segreto di quella scatola e l’odissea di quello straniero, Henry Fool, condannato a morte ma scampato all’esecuzione con un espediente degno di Sheherazade… Piccoli indizi dal corpo di un film che – suggerendo split-screen interiori (come quello leggibile dagli specchi del bagno dell’aeroporto che riflettono volti di donne…) e modellando fermi immagine come si trattasse di fotografie sfocate per cogliere ultimi istanti di gesti – esprime il proprio segno d’identità nella geometria, costante e impercettibile, di inquadrature leggermente spostate, non centrate, scarto infine subliminale, che rende naturale il continuo assurdo narrativo. E Fay Grim una storia d’amore che il film alimenta nella separazione, nei corpi lontani di Fay e Henry, nei loro sguardi a distanza, come nella scena finale, lui in mare sul battello, lei a terra. In spazi senza più geografie se non quella del cinema.

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