La Nave, di Carlos Maria Romero

In concorso al #PesaroFF58 , il film colombiano è un’eccellente opera prima. Scardina tabù nella maniera più naturale possibile, con la musica e con i corpi ed è un grido di dolorosa libertà

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Opera d’esordio dell’artista Carlos Maria Romero, aka Atabey Mamasita, La Nave è un lavoro estremamente interessante, provocatorio e ben diretto. Dedicato al Carnevale di Barranquilla (Colombia), secondo in ordine di importanza in tutta l’America Latina, il film è una carrellata di immagini, sensazioni e suoni dal sapore agrodolce, ma traboccante di una libertà che sboccia proprio grazie alla materialità filmica. La rappresentazione del Carnevale di Barranquilla, unico e vero momento in cui gli emarginati della zona possono sentirsi liberi di mostrarsi realmente per quello che sono. Nonostante questo sia chiaramente un elemento positivo, nella realtà delle cose, il Carnevale apre ogni anno una ferita, dal momento in cui si tratta di un brevissimo periodo di liberazione dopo mesi di sentimenti repressi. Questo elemento è molto forte e rappresenta uno dei punti di forza più evidenti del film, in quanto lo sguardo è sempre diretto, calibrato ed estremamente sincero. L’evento di Barranquilla è allo stesso tempo il protagonista de La Nave e il suo pretesto. Proprio grazie a questo momento amatissimo da tutta la comunità è possibile scavare all’interno delle sue contraddizioni e alle sue ipocrisie più profonde. Infine, fondamentale è il rapporto del film con l’aspetto musicale, che permea la quasi totalità delle scene e dona nuova linfa ai pensieri e ai volti dei personaggi.

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Il Carnevale, il quale si svolge per quattro giorni dal sabato al martedì precedenti il mercoledì delle Ceneri, permette al film di Maria Romero di prendere un’aura mistica e profonda, radicata nella storia del luogo. I protagonisti racchiudono in loro tutte le sfumature della discriminazione, una discriminazione che però non è in questo caso topica, ma universale. Essere donna, transgender, nero, ancora oggi significa essere “difficili da accettare”. Spiegato così, La nave sembrerebbe pieno di cliché. La verità è che il film è perfetto sotto questo punto di vista, poiché privo di tutti quegli orpelli buonisti e di ammiccamenti di ogni sorta tipici di certo cinema “occidentale progressista” (vedi europeo o nordamericano). Il racconto prende forma da una tribalità, da una viscerale sensazione animalesca, liberatoria e pulsante. Una libertà e una potenza che solo certi riti possono regalare. Non è un caso che una delle parole più ripetute dalle diverse voci che popolano il film sia “tambor”, “tamburo”, proprio a voler indicare come il suono, il ritmo, siano parte integrante del difficile processo di liberazione dalle catene, genitrici di quello che è invece un suono metallico, ingombrante. E la liberazione è anche e soprattutto fisica, in un moto di corpi plastici che irrompono uno dopo l’altro sullo schermo, a metà fra l’espressione di una gioia che esplode e quella di un dolore che si ritira dentro se stesso.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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