La nuit du 12, di Dominik Moll

Il regista torna al polar per raccontare un caso raccapriciante di omicidio. E trova il tormento e la solitudine di un’umanità distratta e sotto anestesia. Cannes Première.

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Premessa didascalica a schermo pieno: dei tantissimi omicidi commessi in Francia, circa il venti per cento resta insoluto, e tanti casi sono destinati a diventare un’ossessione per l’investigatore. La questione criminale è soltanto un pretesto, ma l’indagine serve per esplicitare formalmente altro. L’inizio del film coincide con l’uccisione di una ragazza, bruciata viva mentre torna a casa dopo una tranquilla serata con le amiche. L’inchiesta sconta un difetto, quella di essere basata su dei metodi che tendono a colpevolizzare la vittima, soprattutto quando si tratta di una donna. Attraverso gli interrogatori, usati per scavare nel passato, viene scandagliata la sua vita sentimentale e sessuale, come se il numero dei partner dovesse emettere un giudizio di assoluzione o di condanna, e la natura delle relazioni la chiave di una verita costruita su aspetti indiziari. Quella che dovrebbe essere la ricerca del colpevole è un lungo elenco di personaggi, equivoci, anaffettivi, egocentrici. L’empatia un’eccezione,  l’amore diventato una vera rarità. Nel quadro generale c’è la solitudine dei rapporti guidati dall’interesse immediato, per fuggire la noia dentro un incontro evanescente. I rapporti  malati, dai quali non si riesce a fuggire, per il timore delle botte, e quelli talmente impossibili da farci scappare al solo pensiero. Lasciando sia l’onda di un momento, casuale, inaspettato, o soltanto una sensazione caotica, a guidare la nostra disponibilità a guardare verso gli altri, per riuscire finalmente a vedere qualcosa, e pensare addirittura possa esse qualcosa di magico.
La nuit du 12 è una corsa contro il vuoto, i genitori rimasti soli a piangere sulla tomba di un cadavere sfigurato dalle fiamme, privato di un’identità ancora in formazione. Un ispettore che sbatte continuamente sul niente ogni volta si trova ad avere una pista plausibile, e poi finisce nel buio che nasconde le nostre paure. L’idea di Dominik Moll sembra proprio quella di suggerire una nuova via di fuga, senza indicare una precisa direzione o una scelta obbligata. L’alternativa al niente consiste nel provare a rompere il guscio dell’indifferenza, colpendo innanzitutto quei pilastri che lo rendono tale, il pregiudizio, l’ignoranza, la fretta e la superficialità dello sguardo, prendendo coscienza, trovando il coraggio di affrontare la sconfitta.

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Prendendo spunto da una storia vera, Moll realizza un giallo ideologico sul femminicidio, trascurando un po’ la precisione in favore di un lato teoretico, e si mette ad osservare il meccanismo denudandolo delle sue difese. Lascia lo schema in bella vista per evidenziare gli errori, lanciando nelle stesso tempo un’accusa ad un mondo ancora molto maschilista (e curiosamente pieno di gatti, dal probabile significato simbolico) ed un messagio generazionale per suggerire magari di guardare bene verso il ponte oltre la nebbia. Dai ritmi non altissimi, quasi a voler ascoltare una voce che ha bisogno di tempo per essere compresa.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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