La programmazione di Fuori Orario dal 10 al 16 settembre

Omaggio a Ryusuke Hamaguchi e Mambety, Sembene, Golestan e Ghatak per il ciclo “Oltre e dopo la Nouvelle Vague” con la prima tv di Alyam Alyam di Ahmed El-Manouni. Da stanotte.

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CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

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Domenica 10 settembre dalle 1.30 alle 6.00

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Fuori Orario cose (mai) viste

di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

RAGGIUNSERO IL TRAGHETTO. FUORI ORARIO VENEZIA 80 (7)

Ryusuke Hamaguchi  

a cura di Fulvio Baglivi, Simona Fina e Roberto Turigliatto

HAPPY HOUR        terza parte

(Happīawā, Giappone, 2015, col., dur., 110’, v.o. sott., it.)

Regia: Ryusuke Hamaguchi

Con: Sachie Tanaka, Hazuki Kikuchi, Maiko Mihara, Rira Kawamura

Pur essendo attivo come regista e sceneggiatore fin dal 2008 (ha lavorato anche con Kiyoshi Kurosawa, di cui è stato allievo all’Università), è stato scoperto in Italia molto tardivamente, a seguito dei premi ottenuti prima da Il gioco del destino e della fantasia (Orso d’argento al Festival di Berlino) e subito dopo da Drive My Car, premiato al Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura e vincitore dell’Oscar come miglior film internazionale. In realtà Hamaguchi era considerato uno dei nomi importanti del cinema internazionale almeno da Happy Hour, presentato in concorso a Locarno e vincitore del premio per la migliore interpretazione conferito alle quattro attrici, e dal successivo Asako I e II, già in concorso a Cannes, cui è seguita nel 2019 la prima retrospettiva completa dei suoi film a Parigi.

Happy Hour è stato sviluppato nell’ambito di una residenza del regista al KITO Design and Creative Center Kobe nel 2013 e scaturisce da un workshop di recitazione con attori non professionisti.

A Kobe quattro donne che sono diventate amiche nel corso degli anni si frequentano e si confidano reciprocamente.  Quando una di loro, Jun, confessa alle amiche di aver chiesto il divorzio, queste accolgono la notizia con una certa sorpresa. Assistono alla causa in tribunale, dove Jun deve affrontare un marito dispotico.  Durante un viaggio ai bagni termali di Arima Jun sparisce misteriosamente scatenando una catena di eventi inaspettati…

Happy Hour è un’autentica meraviglia, un affresco corale di una bellezza e profondità stupefacenti, quattro sublimi ritratti di donne nella vita quotidiana… Esaminando nei dettagli la vita di quattro amiche sulla quarantina che cercano di sfuggire alle alienazioni del quotidiano. Hamaguchi riesce a filmare gli esseri nella loro intimità più profonda” (Mathieu Macheret, “Le Monde”, 20 giugno 2018)

“Tutti i film sono finzione e documentario nello stesso tempo. Ho sperimentato sia l’una che l’altro e credo che non ci sia nulla che sia pura finzione o puro documentario. Gli attori recitano davanti alla macchina da presa. Quello che la macchina da presa riesce a catturare è un documentario sugli attori, perché stanno facendo qualcosa che accade una sola volta…. Non è tanto il teatro a interessarmi, quanto la recitazione, il fatto di appropriarsi di un testo, di interpretarlo”.  (Ryusuke Hamaguchi)

WHEEL OF FORTUNE AND FANTASY – IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA                                               

(Guzen to sozo, Giappone, 2021, col., dur., 121’, v. o. sott., it.)

Regia: Ryusuke Hamaguchi

Con: Kotone Furukawa, Kiyohiko Shibukawa, Katsuki Mori, Aoba Kawai, Ayumu Nakajima, Hyunri, Shouma Ka

Mentre Drive My Car è tratto dai racconti di Haruki Murakami, Wheel of Fortune and Fantasy è basato su una serie di appunti originali scritti da Hamaguchi per dei possibili racconti che invece, sviluppati, sono poi diventati la sceneggiatura del film. La traduzione letterale del titolo originale giapponese è “Caso e immaginazione”.

Il film è suddiviso in tre episodi, che ruotano ciascuno intorno a un personaggio femminile. Come tre movimenti di un brano musicale, raccontano le storie di un triangolo amoroso inaspettato, di una trappola di seduzione fallita e di un incontro che nasce da un malinteso. Il film costruisce poco a poco un organismo unico che riflette sulle nozioni di tempo e spazio e che culmina nel contesto fantascientifico dell’ultimo episodio. Coincidenza, destino, scelta, rimpianto: sono loro i veri protagonisti del film.

“All’inizio avevo diverse bozze di racconti. Li mettevo in sequenza a partire da quello che ritenevo più adatto ad aprire il film, e infine li trasformavo nella sceneggiatura vera e propria. Ricordo che i Six contes moraux di Éric Rohmer erano romanzi prima di diventare la sceneggiatura vera e propria. Non ho pensato di fare qualcosa di simile, però, perché non ero molto attratto dall’idea di scrivere dei veri e propri racconti.” (…) Trovo straordinaria quella scintilla irripetibile che si crea ad ogni ripresa. Trovo che gli attori abbiano una parte dentro di loro che si stanca sempre di più ripetendo una sequenza, mentre un’altra parte, al contrario, brilla. Penso che la ragione per cui non perdono quella scintilla fino alla fine potrebbe essere perché hanno interiorizzato la lettura. Poi, con il taglio finale, cerco di mettere insieme quelle scintille”. (cit., tratte da, The power of the word, Interview with Ryusuke Hamaguch, Film Parlato, n. 16)

 

Venerdì 15 settembre dalle 1.25 alle 6.00

UN FILM NON COME GLI ALTRI. OLTRE E DOPO LA NOUVELLE VAGUE (11)

a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

ALYAM ALYAM  PRIMA VISIONE TV

(Marocco, 1978, b/n, dur., 84′, v.o sott., it.,)

Regia: Ahmed El-Manouni

Con: gli abitanti di Toualàa (Oulad Ziane) nella regione di Casablanca, in particolare: Abdelwahad e la sua famiglia, Tobi, Afandi Redouane e Ben Brahim

Restaurato nel 2015, grazie al progetto World Cinema Project della Film Foundation, in collaborazione con Ahmed El-Maanouni

Il film parla di sogni infranti, della forza che nasce dalla disperazione e delle circostanze che hanno condotto al crollo della società tradizionale marocchina. Dopo la morte del padre, il giovane Abdelwahad deve prendere il suo posto come capofamiglia e provvedere alla madre e ai suoi sette fratelli. Ben presto però non sopporta più la vita nelle campagne e la povertà senza via d’uscita; quindi, decide di andare in Francia a lavorare.

“Volevo semplicemente mostrare i volti dei braccianti, onorare i loro silenzi e le loro parole. Non cercavo la bellezza spettacolare, ho fatto in modo che il mondo rurale si esprimesse visivamente attraverso l’astrazione e il silenzio. Riguardando Alyam Alyam, dopo quasi quarant’anni, osservo quanto tutto sembrasse presagire la tragedia vissuta oggi da migliaia di migranti”. (A.El Maanouni)

TOUKI BOUKI  (IL VIAGGIO DELLA IENA)       

(Senegal, 1973, col., dur., 86’, v. o. sott., it.,)

Regia: Djibril Diop Mambéty

Con: Magaye Niang (Mory), Mareme Niang (Anta)

Il film è stato restaurato da World Cinema Foundation in collaborazione con INA presso Laboratoires Éclair e L’Immagine Ritrovata.

Capolavoro del cinema africano, premiato a Cannes e a Mosca, che rivelò il senegalese Djibril Diop Mambéty come uno dei cineasti più liberi, visionari, rivoluzionari e sperimentali. Morto prematuramente nel 1998, poté realizzare solo nel 1992 il suo secondo e ultimo lungometraggio, Hyènes, che di Touki Bouki è una sorta di seguito.

Mory è un adolescente asociale che vaga solitario per la città a bordo della sua moto. Nell’infanzia è stato un pastore nomade ma la sua mandria è stata portata al mattatoio Anta, studentessa universitaria, è in rottura con l’immagine della donna tradizionale. Entrambi sognano di scappare da Dakar per raggiungere via mare Parigi.

“La storia di Touki Bouki risale a secoli fa: da sempre gli uomini sono partiti alla ricerca di nuove terre in cui credevano che il tempo non finisse mai…  Touki Bouki è un film profetico. Il suo ritratto della società̀ senegalese del 1973 non è troppo diverso dalla realtà̀ attuale. Centinaia di giovani africani muoiono ogni giorno nello Stretto di Gibilterra cercando di raggiungere l’Europa (Melilla e Ceuta). Chi non ne ha mai sentito parlare? Tutte le loro difficoltà trovano espressione nel film di Djibril. I giovani nomadi pensano di poter attraversare l’oceano deserto per trovare la fortuna e la felicità, ma rimangono delusi dalla crudeltà̀ umana che incontrano. Touki Bouki è un film bellissimo, sconvolgente e inatteso che ci fa dubitare di noi stessi.” (Souleyman Cissé)

LA NOIRE DE…                                   

(Senegal/Francia, 1966, b/n, dur. 59′, v. o. sott., it. )

Regia: Ousmane Sembène

Con: Mbissine Thérèse Diop, Anne-Marie Jelinek, Robert Fontaine, Momar Nar Sene

Con questo suo primo lungometraggio il grande cineasta senegalese Ousmane Sembéne vinse il Premio Jean Vigo per il miglior film.

Basato su un fatto realmente accaduto, il film racconta la storia della giovane donna senegalese Diouana che si trasferisce da Dakar, Senegal, ad Antibes, Francia, per lavorare per una coppia francese. In Francia, Diouana spera di continuare il suo precedente lavoro come tata e si aspetta un nuovo stile di vita cosmopolita. Tuttavia, al suo arrivo, Diouana sperimenta un trattamento duro da parte della coppia, che la costringe a lavorare come una serva (e che lei chiamerà fino alla fine Madame e Monsieur). Col passare dei giorni, Diouana diventa sempre più consapevole della sua situazione di costrizione e alienazione e comincia a mettere in discussione la sua vita in Francia. La struttura del film è fatta di continui flashback che mostrano la vita precedente di Diouana in Senegal. Il povero villaggio fuori Dakar da dove la ragazza proviene e dove, come la maggior parte dei suoi coetanei, vagava per la città in cerca di un lavoro. L’incontro con ‘Madame’ che inizialmente la sceglie per occuparsi dei suoi figli a Dakar e poi la porta in Francia. Diouana sogna una nuova vita ma il sogno si infrange velocemente. Politicamente il film mostra lo scarto chiudendosi in interni, mentre le scene in Senegal sono tutte all’aperto. Diouana comincia la sua ribellione. Non mangia, non lavora, rifiuta lo stipendio e, al culmine della lotta, si suicida tagliandosi la gola nella vasca da bagno della casa di famiglia. La maschera atroce del colonialismo è svelata.

“Considero il cinema un mezzo di azione politica. Ciononostante non voglio fare dei “film manifesto”. I film rivoluzionari sono un’altra cosa. In più, non sono così naif da pensare di poter cambiare la realtà senegalese con un singolo film. Ma penso che se ci fosse un gruppo di registi che realizzasse film con lo stesso orientamento, noi potremmo in piccola parte modificare lo stato di cose presenti.” (O. Sembéne)

 

Sabato 16 settembre dalle 1.15 alle 6.30

UN FILM NON COME GLI ALTRI. OLTRE E DOPO LA NOUVELLE VAGUE

(12)

a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

MATTONE E SPECCHIO                      

(Brick and Mirror / Khesht o ayeneh, 1963-1966, versione restaurata nel 2016, b/n, 125’, v.o. sott. it.)

Regia: Ebrahim Golestan

Con: Zackaria Hashemi, Taji Ahmadi, Jalal Moghadam, Masoud Faghih, Parviz Fannizadeh, Manouchehr Farid, Forough Farrokhzad

A Teheran, nel 1963, all’indomani del colpo di stato. Il tassista Hashem trova nella sua vettura un bambino in fasce, lasciato da una donna velata che aveva trasportato. Trascorrerà la giornata in una ricerca vana della madre.  In una Teheran tentacolare, vera e propria giungla urbana, Golestan mette in scena quasi in presa diretta un clima di incertezza, di paura, di corruzione e di tradimento. Il titolo allude a una poesia di Farid al-Din Attar (“Ciò che i vecchi vedono in un mattone/ i giovani vedono in uno specchio”).  “La forma del soliloquio riflette sia l’ammirazione di Golestan per Orson Welles, sia la tradizione orale e il frequente uso della metafora nella cultura persiana” (Ehsan Khoshbakht).

Film chiave della nouvelle vague iraniana, Mattone e specchio viene oggi considerato un capolavoro incompreso nella sua epoca. Primo film in presa diretta del cinema iraniano, fu girato da una troupe di sole cinque persone nel corso di diversi mesi durante i quali la lavorazione fu interrotta più volte a causa degli eventi politici e delle proteste per l’arresto dell’Ayatollah Khomeini. La collaboratrice principale di Golestan fu la grande poetessa Forough Farrokhzad, anche montatrice e occasionalmente attrice nonché regista di La casa è nera.

LE COLLINE DI MARLIK              

(The Hills of Marlick o The Element, Iran, b/n, 1964, 15’, v.o. sott. italiani)

Regia: Ebrahim Golestan

Le colline di Marlik è un esempio del lavoro documentario di Golestam: dedicato a un sito archeologico nell’Iran settentrionale risalente a 3000 anni fa, contemporaneamente zona di scavi e terreno concimato dai contadini   in cui il passato e il presente si toccano, il film mostra un’evidente continuità tra le varie manifestazioni umane colte dalla macchina da presa, infondendo vita negli oggetti inanimati.

“Guardandolo è impossibile non pensare a Les Statues meurent aussi (1953): entrambi i film tracciano delle connessioni tra l’uomo, l’arte e la morte, e sono caratterizzati da un approccio storico insieme poetico e politico (…) Nel loro universo ricco e variopinto, il passato e il presente vivono l’uno accanto all’altro, spesso ignorandosi a vicenda finché lo sguardo attento della macchina da presa non li riconcilia attraverso l’ispirazione poetica. Il cinema di Golestan, nel quale è spesso raffigurato l’atto dello scavare (per estrarre il petrolio, per riportare alla luce oggetti e passato storico), è a sua volta una ricerca delle radici di un albero antico chiamato Iran”. (Ehsan Khoshbakht)

UN FIUME CHIAMATO TITAS (A RIVER CALLED TITAS)          

(Titas Ekti Nadir Naam, India/Bangladesh, 1973, b/n., dur., 153′, v. o. sott.italiani.)

Regia: Ritwik Ghatak

Con: Kabori Sarwar, Rosy Samad, Rani Sarkar, Sha kul Islam, Prabir Mitra

La saga poetica e politica del grande regista bengalese Ritwik Ghatak dedicata alle comunità di pescatori lungo il fiume Titas. Film di potente bellezza e di straziante malinconia.  Opera recentemente restaurata dal laboratorio L’Immagine Ritrovata grazie al World Cinema Project della Film Foundation di Martin Scorsese

 “Tratto dal romanzo epico dall’omonimo titolo dello scrittore bengalese di Advaita Barman, il film racconta la povertà e le condizioni di vita durissime delle famiglie di pescatori disseminate nei villaggi che costeggiavano le rive del fiume Titas, prima della ripartizione del Bengala in Occidentale e Orientale. Le donne, al pari del fiume Titas, sono protagoniste. Basanti (Rosy Samad) dal carattere generoso e combattivo unisce in sé le tradizioni di un mondo che sta scomparendo a una volontà ostinata e moderna di ribellarsi a una società ingiusta. L’attrice Kabori Sarwar, incarnazione vivente della dea RajarJhi, manifestazione dell’amore supremo per Krishna, rappresenta, insieme allo sfortunato marito che diviene pazzo per la sua perdita, la summa della religione induista. Dalla loro unione nascerà un figlio che presto orfano, passerà di casa in casa, di famiglia in famiglia. La luce che riverbera dall’acqua del fiume, dalla pioggia, dai volti bagnati di lacrime si scioglie nel respiro dei corpi, vibra negli strumenti musicali tradizionali, componendo un’elegia perfetta”. (dal catalogo di “Cinema Ritrovato”)

“Il film è opera di puro genio. Elegia appassionata di una cultura morente, mi commosse profondamente e continua ancora oggi a ossessionarmi. Ispirato al celebre romanzo bengalese di Advaita Barman e adattato dallo stesso Ghatak, Un fiume chiamato Titas racconta la dura e formidabile storia di un fiume e di una cultura agonizzanti”. (Deepa Mehta).

 

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