La programmazione di Fuori Orario dal 29 ottobre al 4 novembre

Prosegue l’omaggio per il centenario della nascita di Vittorio De Seta e parte il ciclo ‘est’. Tra i titoli: Il naso o la cospirazione degli anticonformisti ed Heimat è uno spazio nel tempo.

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CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

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Domenica 29 ottobre dalle 2.30 alle 6.00

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Fuori Orario cose (mai) viste                                                             

di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

DE SETA RIVISITATO. PER I 100 ANNI DI VITTORIO DE SETA (6) 

a cura di Fulvio Baglivi

IN AMABILE AZZURRO                                PRIMA VISIONE TV

(Italia, 2009, col., dur., 95’)

Regia, produzione, fotografia, montaggio: Alberto Momo

Il mito di Oreste, matricida perseguitato dalle Erinni, racconta l’imporsi di un nuovo ordinamento sociale e giuridico, che chiude definitivamente con un passato arcaico in cui vigeva la legge del sangue: la democrazia, in cui la ragione di stato vince sull’arbitrio della violenza. Nella reinterpretazione dei due autori, nello stesso momento viene però sancito un nuovo potere, maschile e patriarcale, e un nuovo ordine, fondato ancora una volta sulla sopraffazione e sulle continue offese alla terra. E proprio la Calabria, terra bellissima e desolata, un tempo parte della Magna Grecia, è l’ambientazione migliore per illuminare le contraddizioni del nostro presente.

“Oreste è l’eroe del nuovo ordinamento sociale e giuridico, che definitivamente chiude il passato arcaico dove vigeva la legge del sangue, il codice della vendetta, il genos come valore assoluto. Nasce la democrazia, nel sangue del matricidio che sancisce il nuovo potere, maschile, patriarcale, razionale, democratico e imperial-militarista. La ragione di stato vince sulle ragioni del sangue. Mettere sotto sopra il mito dell’Orestea, tanto abusato dalla retorica progressista per fare apologia della democrazia borghese e della modernità capitalista, ci illumina sulla violenza che sta alla base di questo nuovo ordine, fondato ancora una volta sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla supremazia dell’uomo sulla donna, sulle continue offese alla terra. La Calabria, colonia interna all’Italia, il terzo mondo dentro il primo, la miseria utile allo sviluppo, si pone allora come una realtà di scandalo, che illumina le contraddizioni del nostro ordine democratico e sfata i miti di questo falso universalismo borghese e progressista”. (Felice D’Agostino e Arturo Lavorato)

FILMARE IL/NEL MEZZOGIORNO

UNA CONVERSAZIONE CON FELICE D’AGOSTINO E ARTURO LAVORATO

(Italia, 2023, col., dur., 15’ circa)

A cura di: Fulvio Baglivi

D’Agostino e Lavorato raccontano la genesi del loro film In amabile azzurro, girato in Calabria come tutta la loro produzione, che coinvolge una comunità di persone non riconciliate con la narrazione che si fa della loro terra quanto della loro quotidianità.

IN CALABRIA

(Italia, 1993, col., dur., 81′)

Regia: Vittorio De Seta

Nato a Palermo da una famiglia aristocratica di provenienza calabrese, Vittorio De Seta esprime non una semplice origine, ma una vera e propria aderenza e appartenenza sociale alla Calabria. A questa regione, infatti, ha dedicato diversi lavori e in una tenuta della famiglia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Iniziò a prestare attenzione “ai dimenticati” dopo l’esperienza della prigionia, maturata durante la guerra: pescatori, contadini, pastori, artigiani sono al centro delle sue opere girate in Sicilia, Sardegna e Calabria. In Calabria, girato in 16 mm nel 1993 per la RAI, ha un commento di 13 minuti complessivi, affidato dalla voce di Riccardo Cucciolla. Una mappa allarmata e sconsolata di una regione in mutamento, una ricognizione in cui la Calabria non è soltanto “in Calabria”, ma un po’ dappertutto, intorno ad ognuno di noi.

Alla fine del XX secolo, in Calabria, ci sono ancora persone che vivono come nell’antichità, in luoghi dove il tempo sembra essersi fermato. La macchina da presa di De Seta osserva i pastori versare il latte dei loro animali nei secchi e lavorarlo, uomini in grado di costruirsi manualmente ogni tipo di utensile. Il loro è un mondo contadino fatto di piccoli gesti quotidiani in cui è necessario l’aiuto reciproco. Parallelo a questo, c’è un altro universo, diametralmente opposto, fatto di fabbriche, degrado, grandi macchinari. Nuove costruzioni, tra cui i casermoni dell’Università della Calabria, devastano il panorama naturale, fabbriche abbandonate testimoniano il fatto che gli abitanti devono impegnarsi a non perdere per sempre il tessuto delle proprie tradizioni.

“(…) ha la bellezza disperata del gesto amoroso che vuole stringere nel presente della sua iscrizione l’oggetto amato e che può soltanto mostrarlo cambiato. L’oggetto filmato, la Calabria perduta, si assenta e si sospende, scoprendo contemporaneamente la potenza utopica e ucronica del cinema”. (Jean-Louis Comolli)

 

Venerdì 3 novembre dalle 1.40 alle 6.00

est (1)

a cura di Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

KILL IT AND LEAVE THIS TOWN         PRIMA VISIONE TV

(Zabij to i wyjedz z tego miasta, Polonia, 2019, col, dur., 87’33’’, v.o.sott.it)

Regia: Mariusz Wilczyński

Presentato al Festival Internazional del Film di Berlino nella sezione Encounters.

Il film parla di un eroe, in fuga dalla disperazione dopo aver perso le persone più care, che si nasconde in una terra sicura di ricordi, dove il tempo si è fermato e tutte le persone a lui care sono vive.

Per il suo primo lungometraggio d’animazione, che ha richiesto quattordici anni di lavoro, Mariusz Wilczyński si è dedicato alla propria biografia e si è messo a nudo. Rovistando in modo irriverente e disinibito nella sua memoria personale e collettiva, popola le strade, i tram e i negozi della città industriale di Lodz con personaggi, frammenti di memoria e melodie orecchiabili che ci riportano al suo mondo infantile degli anni Sessanta e Settanta. Personaggi letterari, eroi dei fumetti, familiari e amici si aggirano anacronisticamente in un vero e proprio cupo labirinto che tuttavia sfida l’oscurità e l’oblio. Wilczyński spinge all’estremo lo stile e la poesia dei suoi precedenti film più brevi, che oscillavano tra i disegni per bambini e l’estetica gotica, testando finanche i limiti di ciò che può essere proiettato, sperimentando ogni sfumatura immaginabile tra il grigio e il nero.

Tra le voci dei personaggi c’è anche quella di Andrzej Wajda.

“Il titolo Kill It and Leave This Town, come il film stesso, ha molteplici significati e livelli. Il suo significato di base è il motivo per cui ho realizzato questo film. Mi sentivo in colpa per non essermi preso cura dei miei genitori anziani, perché ero sempre occupato a fare le mie cose. Ho provato rimorso per non averli abbracciati prima della loro morte. Non li ho salutati. Non ho concluso alcune conversazioni. Volevo incontrarli di nuovo in Kill It and Leave This Town. Li ho disegnati per rimediare a tutte queste cose. Le persone che hanno visto il mio film mi hanno scritto dicendo che grazie al film hanno migliorato i loro rapporti con i genitori. Ora tendono a chiamarli più spesso, a far loro visita se possono, a prendersi più cura di loro. Credo che grazie a questo sono riuscito a eliminare il senso di colpa che avevo dentro di me. Questo è il motivo principale per cui ho realizzato il mio film. Kill It and Leave This Town: uccidere tutte queste cose che ti tormentano, quelle che derivano da qualcosa che hai rotto nella tua vita, e aggiustarlo. L’altro significato è, in realtà, il processo di realizzazione del film. Non mi sarei mai aspettato che ci sarebbero voluti 14 anni, un quarto della mia vita. Da un lato, credo che sia stato il periodo più significativo della mia vita, quando ero così felice di fare qualcosa di così importante per me. Dall’altro lato, ho impiegato così tanto tempo perché morivo dalla voglia di finire il film, di uccidere tutto quello che c’era dentro e di liberarmi. Ci sono riuscito e mi sento finalmente libero” […] “Naturalmente, tutto si basa sui miei disegni. Ho disegnato a mano tutti gli scenari e i personaggi, ma abbiamo dovuto escogitare nuove idee quando si è andati oltre il semplice disegno. Per esempio, abbiamo ordinato dei piccoli neon personalizzati che abbiamo illuminato. Tutte le luci e i neon sono stati realizzati a mano, così come il vetro con l’acqua che scende. Non abbiamo usato il computer per questo. Quando il treno passa, si può vedere il paesaggio che cambia dal finestrino. Anche questi sono stati disegnati a mano da me e poi abbiamo regolato l’illuminazione in analogico. Solo in un secondo momento abbiamo usato il greenbox per mettere insieme il tutto. Tutto è stato ugualmente affascinante e impegnativo. Tutte queste soluzioni erano nuove: non le avevo mai fatte prima e dovevo inventarmi qualcosa. Ho dovuto diventare un po’ uno scienziato che escogita un’idea per far funzionare le cose. È così che lavoro sempre sui miei film. Prima penso a quello che dovrebbe essere il tema del film, poi penso a tutte queste macchine magiche che mi aiutano a farlo vivere”. (J. Murphy, Interview with Mariusz Wilczyński, in “Animation Scoop, febbraio 2021)

IL NASO O LA COSPIRAZIONE DEGLI ANTICONFORMISTI       

(Nos ili zagovor netakikh, Russia, 2020, col., dur., 90′, v.o. sott. it.)

Regia: Andrey Khrzhanovsky

Il regista rievoca in tre atti la storia de il Naso, il racconto di Gogol e la sua trasposizione come “opera buffa” da parte di Sostakovictra tra il 1927 e il 1928., con riferimenti anche ad altre due lavori del grande compositore, Rayok antiformalista e Lady Macbeth del Distretto di Mcensk.  Nel corso del racconto incontreremo i personaggi di Gogol ma anche Bulgakov e Stalin, in una satira potente e fantasiosa di un potere che si è accanito nella persecuzione dei “formalisti”, talvolta giustiziati dal regime staliniano, e che si amplia a tutte le differenti epoche della storia russa, quando il potere ha voluto assoggettare l’arte e punire gli “anticonformisti”.   Fin dagli Anni Sessanta il regista aveva ricevuto da Šostakovič (che aveva ammirato il suo primo cortometraggio d’animazione) l’invito a portare nel cinema la sua opera.  Khrzhanovsky, dopo 40 anni, ha portato a termine un fenomenale film d’animazione che va oltre l’animazione, dalle stupefacenti tecniche miste, lavorato in una polifonia sfavillante, un caleidoscopio di stili sorprendente.

«Gogol non è solo una figura centrale nella letteratura russa, ma è anche il pioniere delle diverse correnti che lo seguirono, dal realismo critico al surrealismo. Inoltre è un geniale maestro del montaggio! Un maestro del collage, in un certo senso». (Andrey Khrzhanovsky)

«Tra i premi che ho ricevuto, alcuni sono stati assegnato “per lo sviluppo del linguaggio cinematografico” oppure “per la capacità di integrare diversi stili cinematografici”. Abbiamo parlato di polifonia, di polistilismo, di utilizzo del collage animato, io sono un sostenitore di questo metodo, che semplicemente corrisponde alla natura del mio pensiero. Si tratta di quelle fondamenta straordinarie alla base del montaggio, poiché il montaggio è proprio l’accostamento di diverse epoche, di diversi artisti e di tecniche differenti, o del documentario con l’animazione Ejzenštejn usò la seguente espressione: “l’animazione è oltre il cinema”. Credo che sia davvero così. Il linguaggio dell’animazione ancora non ha visto confini e mai li vedrà». (Andrey Khrzhanovsky)

Il regista, considerato uno dei maestri del cinema d’animazione, è nato nel 1939. Nel marzo del 2022 stato uno dei firmatari – assieme a molti altri tecnici, artisti e registi del cinema d’animazione russo e ucraino – di una lettera di dissenso contro l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. È il padre del noto regista Ilya Khrzhanovsky.

ENCICLOPEDIA AUDIOVISIVA – KAFKA                                    

(Italia-Francia-UK, 1992, col., dur., 54’)

Regia: Zbigniew Rybczynski

Con: Birgit Bofarull, Peter Lucas

Girato per il progetto internazionale Enciclopedia Audiovisiva, con vari segmenti dedicati ad artisti di diverse discipline per altrettanti registi tra cui spicca anche il Gershwin di Resnais, Kafka è il film in cui Rybczynski sperimenta la tecnologia HDTV. Il cineasta polacco trova nel digitale la possibilità di movimenti di macchina impossibili con il 35mm, lavora sul colore e gli attori per raggiungere un’altra dimensione e una surrealtà straniata che incontra le opere di Kafka.

«Quando ho realizzato il mio ultimo film, Kafka, dieci anni fa, ho capito che era tempo per me di mettermi a studiare. E ho cominciato a lavorare alla programmazione dei computer. È il linguaggio del futuro, dalle implicazioni anche superiori a quelle della scrittura perché comprende un elemento affascinante, la capacità di costruire un’immagine e catturarla con un metodo scientifico. Non è difficile che in un futuro prossimo potremo sostituire alla lente ottica una «lente intellettuale», capace di una visione che attraversi il tempo e sia capace di vedere il passato e prevedere il futuro. Scopriremo che l’immagine contiene una sorta di mistero divino, che sarà testimoniato dall’ immagine multitemporale capace di penetrare in altre regioni dello spettro visivo, esattamente come oggi siamo capaci di vedere dentro ai corpi o attraverso i corpi grazie alle tecnologie specifiche». [Zbigniew Rybczynski da un incontro alla Milanesiana con enrico ghezzi e Umberto Eco nel 2003]

 

Sabato 4 Novembre dalle 1.45 alle 7.00

 est (2) 

a cura di Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito, Roberto Turigliatto

HEIMAT È UNO SPAZIO NEL TEMPO      

(Heimat ist ein Raum aus Zeit,Germania, 2019, b/n, dur., 218’, v.o.sott.in it.)

Regia: Thomas Heise

Presentato nella sezione Forum del 69° Festival Internazionale del Film di Berlino (Berlinale).

Vincitore di molti premi internazionali tra cui ricordiamo miglior film al Festival di Nyon, premio Chantal Akerman al Festival di Gerusalemme e premio speciale della giuria al Festival di Montreal.

Di Thomas Heise Fuori orario ha presentato recentemente il precedente Material (2009)

Nato nel 1955 nella Repubblica Democratica Tedesca, Thomas Heise, dopo aver studiato cinema e lavorato come assistente, comincia fin dai primi anni Ottanta a scrivere opere teatrali e radiofoniche e a realizzare documentari che, fino alla caduta del Muro nel 1989, vengono tutti sistematicamente censurati e vietati. Dopo la riunificazione,il suo lavoro sulla cultura dell’Est e la sua attenzione per i temi più critici della storia e della società contemporanea tedesca, vengono definitivamente recuperati e riconosciuti. Heimat è uno spazio nel tempo si pone come la summa di questo percorso filmico e di vita. A partire dall’archivio personale – diari, lettere, fotografie, saggi e temi di gioventù – Heise, che legge ad alta voce e filma i materiali, viaggia lungo l’immenso territorio tedesco inseguendo le tracce della corrispondenza (treni, ferrovie abbandonate, strade bucate da voragini, paesaggi a perdita d’occhio, il campo di lavoro di Zerbst, le architetture di Mainz)e ripercorre la storia di quattro generazioni della propria famiglia (tra Vienna, Dresda e Berlino Est) mostrandone il legame indissolubile e la conversazione ininterrotta con la Storia nazionale e l’Europa: I e II Guerra Mondiale, la questione ebraica, il caso dei matrimoni misti, il comunismo, l’amore, il lavoro, l’arte, le speranze tradite di molteplici generazioni di donne e di uomini. Il Tempo, così ritrovato, condensa memoria e movimento in uno spazio che parla delle nostre origini e profetizza il secolo successivo. “Mi viene in mente una citazione di Stephen Hawking, che un buco nero è un gruppo di eventi a cui non si può sfuggire molto facilmente […] Il film è anche una riflessione su di me, o meglio una riflessione pubblica su come vedo le cose, cercando di portare la storia e le storie correlate al termine, non dissolte in riflessioni verbali, ma nel montaggio degli elementi del film nella sua forma attuale, che è una forma provvisoria. Niente è definitivo o finito”. (J. Cronk, Interview:ThomasHeise, Film Comment, 11 marzo 2020).

CAPITALI CULTURALI D’EUROPA: PRAGA CUORE AGITATO D’EUROPA

(Italia, 1983, col., dur., 60’)

Regia: Vera Chitilovà

Prodotto dalla Rai per il ciclo Capitali culturali d’Europa, il film di Vera Chytilovà, esponente di punta della Novà Vlna (la Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta), è un ritratto della città attraverso la sua drammatica storia e, insieme, un caleidoscopio dalle molteplici prospettive sull’identità culturale praghese.

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