La signora delle rose, di Pierre Pinaud
Una commedia delicata sull’importanza, tutt’altro che scontata, di prendersi cura e dell’avere fiducia dei propri fiori, così come dei propri figli, attendendo pazientemente la loro fioritura.
Il mercato delle rose si concentra principalmente sull’ibridazione delle migliori specie in circolazione. Ogni anno, durante concorsi dedicati, vengono assegnati premi prestigiosi e riconoscimenti internazionali sulla base del miglior ibrido floreale.
La signora delle rose è un film che, inserendosi in questo contesto, insiste sul tema della sensibilità legandolo ad un processo che, paradossalmente, ci rimanda immediatamente ad un immaginario chimico-scientifico. Quando parliamo di ibridazione, infatti, lo scenario che ci prefiguriamo è quello del laboratorio, in cui si studia il miglior tipo di unione possibile e, attraverso il metodo scientifico, si procede all’impollinazione artificiale. Eppure, l’ibridazione è, da sempre, effettuata manualmente e il suo risultato è tutt’altro che prevedibile. Anzi, è piuttosto l’esito di un’operazione in cui intervengono numerosi fattori. Il contesto e l’attenzione ricevuta dalla rosa sono solo alcuni degli addendi necessari per creare il giusto profumo, il corretto numero dei petali, il colore più vivido e la robustezza adeguata.
La delicata commedia di Pinaud si concentra proprio su questa imprevedibilità del processo di ibridazione, mettendola in relazione con la grande incognita dei figli e dell’atteggiamento più adatto nel crescerli. Al centro di questa doppia incognita, si trova Madame Eve Vernet e la sua piccola azienda floreale, ereditata dal padre. La donna (interpretata da Catherine Frot) versa in grande difficoltà economica e non ha le armi per fronteggiare l’incessante industrializzazione del mercato, impersonificata dal giovane imprenditore Lamarzelle. Così, la sua fidata assistente, a sua insaputa, assume tre nuovi stagisti, sfruttando un programma di reinserimento sociale. I tre nuovi dipendenti, tra cui spicca un ragazzo abbandonato dai suoi genitori e con numerosi precedenti penali, non hanno alcun tipo di formazione botanica. Eve, ben presto, però, vedrà in loro una concreta occasione di riscatto e crescita.
Pinaud cattura con grande sensibilità e grazia le rose curate e cresciute amorevolmente da Madame Vernet. Quella della donna è una produzione semplice e casalinga frutto dell’amore con cui si occupa della sua unica famiglia. Le rose, in questo senso, sono la metafora perfetta per rappresentare i figli che la protagonista non ha mai avuto. Il non-avere-figli non le impedisce di saper-essere-madre (più di chi lo dovrebbe realmente essere), infondendo amore, speranza e coraggio nel giovane stagista, così come nelle sue rose. La missione della donna durante il corso del film, diventa, quindi, accompagnare i tre stagisti (e in particolare il ragazzo) in un processo di crescita, alla scoperta delle proprie capacità celate. Pinaud sembra dirci che crescere i propri figli non significhi produrre un ibrido perfetto, da gettare nella società. Essere genitori vuol dire amare e curare le proprie rose, o meglio, i propri figli fino alla loro definitiva fioritura/crescita. Ecco che essere genitori è anche inseguire e coltivare la bellezza celata ma pronta ad esplodere, al momento opportuno, in una meravigliosa fioritura.
E una volta sbocciati, i figli “devono poter inseguire i propri sogni, con la consapevolezza che, se rimarranno delusi, sapranno sempre dove hanno lasciato casa“.
Titolo originale: La fine fleur
Regia: Pierre Pinaud
Interpreti: Catherine Frot, Melan Omerta, Fatsah Boyahmed, Olivia Côte, Vincent Dedienne, Marie Petiot
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 96′
Origine: Francia, 2020