L’altra metà della storia, di Ritesh Batra

Classica gabbia dorata di manifattura BBC, da cui neppure le interpretazioni sembre solidissime di Broadbent e Rampling riescono a fare breccia. Dal regista di Our souls at night

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Tony Webster è un anziano divorziato; gestisce una piccola bottega di riparazione/vendita di vecchie macchine fotografiche. Fa fatica a sbarcare nel XXI secolo, come gli fa notare la figlia, lesbica e incinta grazie ai miracoli della medicina. Eppure lo spaesamento di Tony non riguarda l’adattamento ai tempi (ottimo il rapporto con l’ex moglie, da vecchio sessantottino di lesbiche e triangoli vertiginosi ne ha visti assai), quanto una comprensibile apatia, quell’assenza di emozioni il cui unico compito è consumare, sorde e ignare dei residui…quando perfino una doccia rappresenta il culmine del contatto. In apparenza racconto senile, senza i bagordi de La grande bellezza, ma anche qui l’allegoria della storia, personale e non, e nello specifico un diario, saranno motore d’avvio per il movimento, l’unico pensabile oltre alla morte.

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Accanirsi contro la BBC sarebbe manomettere gli ingranaggi del Big Bang, assodato, tuttavia lo sconforto, e una certa dose di furia è inevitabile. Classicamente parlando, il film di Batra sfrutta la rigidissima gabbia narrativa, quel continuo incedere verso la chiusura del lucchetto, come la stessa Charlotte Rampling fa notare al protagonista, Jim Broadbent. Lord e lady del teatro shakespiriano, tra l’altro riuniti dopo anni di distacco sul Millenium Bridge, a due passi dal Globe. Salti temporali che lasciano a fatica il fulgore dei Sessanta,

TSOAE_12SEP2015-RV_1882 dove Tony conobbe gli occhi evasivi e corrucciati di Veronica, anni innestati nella cultura British come irripetibile golden age. Pensiamo a Franca Sozzani e al suo commento: “Forse non ho mai lasciato la Londra di quegl’anni”. Chiaramente, come pensare ad un film della BBC senza l’establishment collegiale, oppure la tenuta aristocratica di campagna. Emily Mortimer, madre di Veronica, e Matthew Goode, professore del giovane Webster, sembrano quasi reincarnazioni, a tinte sbiadite e/o caricate a seconda dei ruoli, del Match Point di Allen, anche lui impossibilitato dal narrare lo scorcio, forse preferito dagli stessi inglesi, di quell’aurea regale, la più vicina ai reali veri. Per non parlare del triangolo, quasi la storia di Carlo, e quella prima del prozio David (persona-corona-Simpson), avesse piantato un albero genealogico di tradimenti e voltafaccia che perfino la sudditanza non può concedersi.

L’aspetto più succolaltra_met_della_storia_billy_howle_joe_alwynso è Adrian, compagno di college di Tony, sebbene troppo costretto nei calzoni del Catone salvatore della patria. Misterioso, pensoso, e soprattutto l’unico a porsi delle domande. Proprio lui, dopo il suicidio di un compagno, mette in discussione il concetto di verità, di conoscenza, e in particolare la superbia del conoscere, come se tutti potessimo assistere indisturbati allo scorrere, come se tutto di esso ci appartenesse. La trappola riguarda Tony, e il primo passo della sceneggiatura. Ponendo al centro Adrian forse avremmo perso quell’educazione alla buona scuola del sapere, quel fare garbato, compito e quindi implosivo che la BBC non smette di regalarci. Volendo trattare un argomento che forse oggi più che mai ci riguarda, verosimiglianza, ricostruzione dei fatti, non ha senso affastellare su un personaggio come Webster. Non che la sua storia non ci interessi, ma se vogliamo soffermarci sulle retrovie concettuali, allora facciamolo salendo sul palco.

Titolo originale: The Sense of an Ending
Regia: Ritesh Batra
Interpreti: Charlotte Rampling, Jim Broadbent, Michelle Dockery, Emily Mortimer, Harriet Walter, Joe Alwyn, Matthew Goode, James Wilby, Edward Holcroft, Freya Mavor
Origine: UK, 2017
Distribuzione: BIM
Durata: 108′

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