L'ANGOLO DI CINEMAFRICA – AfriCannes 2007: la memoria e l'oblio

La memoria del passato, storico e cinematografico, sembra essere il nodo gravitazionale attorno al quale ruota la più recente produzione cinematografica del continente africano, almeno a giudicare dai film presenti a Cannes e dagli incontri e tavole rotonde ospitati dal Pavillon Les Cinémas du Sud al Villaggio Internazionale

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di Maria Coletti

 

Appunti africani dalla Croisette

La memoria del passato, storico e cinematografico, sembra essere il nodo gravitazionale attorno al quale ruota la più recente produzione cinematografica del continente africano, almeno a giudicare dai film africani presenti a Cannes e dagli incontri e tavole rotonde ospitati dal Pavillon Les Cinémas du Sud al Villaggio Internazionale. Una presenza in sordina – nessun regista africano selezionato nelle competizioni ufficiali – che ha però ugualmente dato la possibilità agli addetti ai lavori ed agli appassionati di cinema africano di costruire un proprio percorso individuale e in controtendenza con la mondanità mediatica ed effimera della selezione principale.

Al di là della fascinosa presenza di Abderrahmane Sissako tra i giurati del 60esimo Festival di Cannes – e del “doyen” Souleymane Cissé che abbiamo incontrato a più riprese nel suo boubou celeste, quasi si fosse magicamente staccato dall’affiche ufficiale del festival – è infatti principalmente nelle sale del mercato e nei pavillons del Villaggio Internazionale (Les Cinémas du Sud, Sudafrica, Marocco, Tunisia e Nigeria) che è stato possibile incontrare registi e film africani. In particolare, lo spazio Cinémas du Sud – gestito come sempre dal Ministero degli Esteri francese in collaborazione con alcune importanti istituzioni (l’Organizzazione Internazionale della Francofonia, Radio France International, TV5 Monde, Canal France International ed Euromed Audiovisuel) – ha saputo offrire una ricca programmazione giornaliera tale da far concorrenza alle altre proiezioni e manifestazioni festivaliere.

Anche se non erano moltissime le novità, a tre mesi dal Fespaco di Ouagadougou, il pavillon Les Cinémas du Sud ha comunque ospitato molti importanti eventi per la promozione del cinema africano, di cui abbiamo già dato notizia da Cannes nello spazio news del nostro sito: due lezioni di cinema del nigeriano Newton Adaka e del burkinabè Gaston Kaboré (anche omaggiato con un premio attribuitogli dal Pan African Film Festival di Los Angeles), coordinate da Jean-Pierre Garcia del Festival di Amiens; la consegna della Legione d’Onore al regista nigerino Moustapha Alassane; l’omaggio al Festival Panafricain du Cinéma et de la Television di Ouagadougou, con la presentazione del secondo cofanetto della raccolta dei film vincitori del Fespaco dal 1973 al 2005.

Da segnalare, inoltre, un’interessante tavola rotonda sul digitale coordinata da Olivier Barlet di Africultures, che è riuscito ad evidenziare alcuni degli aspetti che fanno della diffusione del digitale una speranza e insieme un pericolo per il cinema africano: il problema della durata e dell’esclusività dei contratti per la distribuzione digitale (canali satellitari, internet, homevideo); il futuro delle sale cinematografiche e i costi delle attrezzature di proiezione in digitale; la possibilità di creare cataloghi digitali per la diffusione e la conservazione del cinema africano e della sua memoria.

 

Sguardi tra passato e presente

Il tema della memoria e del rapporto tra passato e presente è del resto un tema centrale, affrontato in molti dei film africani presentati a Cannes, anche se declinato attraverso una grande varietà di stili e di approcci. In Ezra di Newton Aduaka – vincitore del Fespaco e proiezione speciale della Settimana Internazionale della Critica, in collaborazione con RFI – il conflitto tra memoria ed oblio è al contempo il contenuto e la forma del film. Il personaggio del bambino soldato strappato alla famiglia, costretto alla violenza e poi messo di fronte alle proprie colpe e alla propria amnesia dalla sorella, è anche una metafora dell’Africa di oggi, dell’importanza di fare autocritica per distaccarsi definitivamente da una dipendenza economica dall’Occidente che fa ancora del continente africano un paese povero a causa delle sue ricchezze. Come lo stesso Aduaka ha dichiarato presentando il film, si tratta di osservare la propria storia in chiave panafricana, andando al di là dei conflitti che oppongono superficialmente gli africani contro altri africani, per leggerli in modo dialettico, uscendo da una rigida opposizione tra modernità e tradizione.

Nel film Il va pleuvoir sur Conakry (uno dei quattro selezionati alla giornata africana di Tous les Cinémas du Monde e vincitore del premio del pubblico al Fespaco), il regista Cheick Fantamady Camara presenta dei personaggi di giovani che tentano di sfuggire agli stereotipi sociali che li circondano, e soprattutto al controllo sociale esercitato da un potere religioso onnipresente. Se lo stile utilizzato dal regista spesso non riesce ad elevarsi da un piatto formato televisivo, si tratta comunque di un film importante per il coraggio nell’affrontare temi spesso tabù come la satira politica e sociale e la sessualità.

Lo stesso si può dire anche del film Tartina City del regista ciadiano Issa Serge Coelo: la denuncia esplicita contro l’uso della tortura e di un regime politico che impedisce la libertà di espressione in Ciad, infatti, anche in questo caso non si muove purtroppo di pari passo con uno stile all’altezza della novità e della forza narrativa. Un montaggio a volte approssimativo e alcune soluzioni stilistiche a dir poco ingenue tolgono forza espressiva a un film che pure colpisce per la capacità di dipingere a grandi tocchi una società divisa in due: l’apparente tranquillità di un ordine sociale imposto e propagandato dall’alto e la faccia nascosta del potere, la banalità del male che si nasconde al di sotto la superficie, nelle prigioni sotterranee che continuano ad esistere nonostante gli apparenti e ambigui cambiamenti del regime al potere.

Un ritratto altrettanto crudo e sofferto è quello che viene tratteggiato dalla regista Ana Ramos Lisboa nel suo film Cabo Verde nha cretcheu (Cap-Vert mon amour): una storia corale che denuncia la condizione femminile nell’arcipelago di Capo Verde, tra la subordinazione sociale e sessuale fatta di violenze nascoste e la solitudine o la follia di chi cerca di opporsi alla legge patriarcale del silenzio. Peccato che la regia presenti cadute di stile e che la forza emotiva del film non si traduca in una scrittura altrettanto libera e personale, capace di trasformare la malinconia musicale del fado in una malinconia visiva e poetica capace di andare al di là di denuncie sociali da film-dossier.

 

L’Africa in Europa, tra realtà e immaginario

Alla ricerca di nuovi sguardi dall’Africa e sull’Africa nel panorama cinematografico variopinto della Croisette, non potevo non imbattermi anche in alcuni film che affrontano il tema dell’immigrazione africana nella fortezza Europa. Due cortometraggi, in particolare, mi sembrano particolarmente riusciti nel dipingere la tragedia della clandestinità e dell’esilio: Tarrafal del regista portoghese Pedro Costa (episodio del film collettivo O Estado do mundo) e Gourgou, l’homme fort del giovane regista francese Sacha Chelli, proiettato nello spazio indipendente dello Short Film Corner. Se, nel primo cortometraggio, Costa filma in lunghi piani sequenza la malinconia di una famiglia di immigrati clandestini capoverdiani che vivono in una baracca nei dintorni di Lisbona e sognano il ritorno a casa e si confrontano con la morte (che prende le sembianze di una lettera di espulsione), in Gourgou viene mostrato in modo diretto cosa significa cercare di emigrare clandestinamente dal Marocco cercando di arrivare a Melilla e da lì oltrepassare Gibilterra, dopo aver varcato il filo spinato che chiude la “fortezza Europa”.

Ma cosa accade una volta giunti all’interno della fortezza? A questa domanda cercano di dare una risposta complessa e personale due film africani presentati al Pavillon Les Cinémas du Sud: Juju Factory del congolese Balufu Bakupa-Kanyinda e Le Sourire du serpent del guineano Mama Keita. I due film sono accomunati da una simile ricerca espressiva che valorizza il formato video sottolineando la “sporchezza” del mezzo ed esaltandone l’aspetto sperimentale, ma anche riflettendo – attraverso la forma ibrida, a volte sconnessa e cupa, e una scrittura allusiva ed onirica – la difficoltà di esprimere un’identità stratificata, risultato di un mélange culturale in atto.

In Juju Factory, la tensione all’espressione di sé è incarnata dal personaggio dello scrittore africano di Bruxelles che vuole scrivere un libro sull’identità meticcia del quartiere africano di Matonge, rivelando gli incubi e la storia rimossa che ancora traumatizzano il Belgio e il suo passato coloniale, mentre deve scontrarsi con l’editore che, invece, vuole fare una semplice e commerciale guida turistica. In Le sourire du serpent, invece, il gioco di sguardi e di identità meticcie riguarda una prostituta slava e un immigrato africano che si incontrano in una notte di terrore e di solitudine e finiscono per rivelarsi come di fronte a uno specchio, superando gli stereotipi culturali che li bloccano più della paura.

Di fronte ai fantasmi rimossi della storia (Lumumba) e della psiche (la minaccia di un assassino), i protagonisti sono costretti a leggere nell’Altro le proprie paure e ad uscire allo scoperto, rivendicando con orgoglio il proprio nome e la propria diversità. In fondo questa è anche una bella metafora del cinema africano, e non è certo un caso che in entrambi i film i protagonisti siano degli artisti alla ricerca della propria identità e della libertà espressiva (uno scrittore in Juju Factory e un pittore in Le Sourire du serpent): “E’ la paura che fa di te una vittima”.

 

Articolo a cura di www.cinemafrica.org

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