Las memorias perdidas de los árboles, di Antonio La Camera

I sussurri della foresta amazzonica diventano vere e proprie musiche, una risposta sonora ad un dialogo che scorre oltre lo spazio-tempo, nel corto vincitore della Sic@Sic di Venezia 2023

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Il cortometraggio Las memorias perdidas de los árboles, diretto da Antonio La Camera, ha vinto la sezione Sic@Sic della 38° edizione della “Settimana internazionale della critica” di Venezia. Il film è stato realizzato nel corso del workshop CreatorsLab di Apichatpong Weerasethakul, nell’Amazzonia peruviana. Racconta il regista “durante il primo giorno di scouting nella foresta, mi sono imbattuto in due alberi, un shihuahuaco e un lupuna, cresciuti uno di fianco all’altro in una piccola radura, parzialmente isolati dal resto della foresta…”, ha inizio così quest’avventura. È un dialogo con questo mondo (che ci dimentichiamo essere) vivo che diventa dialogo tra esseri viventi, in forme diverse, dello spirito e del corpo.

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Una natura che, a primo impatto, sembra intatta e inesplorata e che fa subito pensare al cinema di Piavoli. I suoni e i sussurri della foresta amazzonica diventano vere e proprie musiche, in grado di cullare lo spettatore in uno stato di trance.

Il panorama bucolico è però ingannevole: alla luce delle stelle seguono delle luci rosse intermittenti. Pensiamo a EO di Skolimowski, l’interiorizzazione dell’asinello spaventato ed alienato dalla realtà circostante. Ci sentiamo come in trincea; mentre le urla delle scimmie fanno eco da lontano.

Vediamo gli stessi alberi mostrati all’inizio, ma questa volta le inquadrature dal basso unite alle luci scarlatte ricreano un’immensità austera, quasi fossero delle cattedrali. “Fratello” leggiamo sullo schermo. Ci sono delle grida della natura tra i fruscii del vento – una risposta sonora ad un dialogo che scorre oltre lo spazio-tempo. I due alberi cercano nelle loro radici i ricordi di un’altra esistenza; quando il tronco aveva le braccia e nell’acqua ci si tuffava. Quelle cellule si sono trasformate. Un discorso, quello di La Camera, che sposa la filosofia orientale ma senza rinunciare a delle interferenze occidentali.

Gli alberi che comunicano silenziosamente sono immagini che scatenano riflessioni, sembra quasi il tentativo di salvare le anime dei suicidi che Dante confinò nel tredicesimo canto dell’Inferno; ma queste non sono vittime che si sono tolte la vita, sono vittime di un sistema.

Le immagini in bianco e nero che rivelano le precedenti esperienze umane hanno il sapore della pellicola scaduta; tutto lo scorrere del tempo sembra essersi posato su queste immagini. E queste immagini, uniche testimonianze della traccia umana sulla terra, depositata in un ricordo sfocato, accentuato da lenti deformate, sembrano più appartenere ad un universo lontano, abitato da demoni, causa del male.

E si ragiona sul tempo (un tempo fluido ma sostanziale), a cominciare dalla luce: le stelle che illuminano il paesaggio notturno sono forse morte, ma le radiazioni luminose continuano a risplendere per migliaia di anni. L’eredità del vissuto resta, da qualche parte, pronta per trovare un nuovo linguaggio per raccontarsi.

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