Le dolcissime vibrazioni dei corpi, ovvero: della sacralità del vero

Napoli è una strana città. Ed ha uno strano rapporto col cinema. Neanche quaranta sale per una popolazione di oltre tre milioni di abitanti e, per lo più, le pellicole proposte si uniformano e deflagrano in pochi titoli, quelli, naturalmente, più facilmente vendibili (cinema americano, qualcosa d’italiano e pochissimo altro, spesso relegato in salette quasi televisive d’una ventina di posti). Strano caso questo di In the Mood for Love che, in questa città, da alcune settimane, continua a girare, continua a raccontare la sua storia, quasi ricomparendo a sorpresa, venendo meno alla regola che vuole liquidati in una settimana i film meno disponibili nei confronti delle aspettative del pubblico domenicale da secondo spettacolo. Significherà qualcosa, evidentemente, questo film, anche per un pubblico più vasto, meno selezionato e meno disponibile a piegarsi alle strategie narrative diverse da quelle ormai consolidate.
Wong Kar-Wai non racconta una storia semplice oppure, se volete, narra una storia semplicissima d’un amore che non si sostanzia, d’un desiderio che vive profondissimo negli occhi dei personaggi e nei cuori degli spettatori. Film di lentissime colorazioni, di ralenti che smuovono i sentimenti, che permettono di ragionare e di seguire altri discorsi – quelli propri – più sotterranei. Un film che aiuta a riflettere, che impone riflessioni. Che lascia la libertà di scegliere qualcosa che si agita sul fondo del nostro essere. Sono amori, tradimenti semplicemente consumati, tradimenti banalmente vissuti, innamoramenti leggerissimi…
Scompare definitivamente il corpo: premonizioni simili già alla fine degli anni Ottanta ce le dichiarava il cinema horror di Carpenter e ce lo urlava dietro anche certo cinema incerto di Cronenberg. Ci si interrogava sui sentimenti, sull’anima, sull’enorme desiderio di pensiero religioso e trascendente banalizzato, poi, dalla New Age. In the Mood for Love cancella un altro baluardo della resistenza del corpo: il sesso.
Non stiamo dicendo che il sesso perda la sua valenza quale linguaggio, che non sia possibile riconoscerne una sua sostanzialità fisiologica e salutare: le riviste di regime ce lo insegnano e ce lo ripetono in continuazione, quasi corressimo il pericolo di dimenticarcelo – in estate siamo stati travolti da periodici e quotidiani che urlavano sesso dappertutto, ce lo rovesciavano addosso creando improbabili sensi di colpa. Si rincorrevano numeri, densità, quantità. Le donne erano messe al centro, giocavano la parte di chi deve decidere, su tale argomento, tutto. Venivano intervistati uomini dello spettacolo e squallidi politici ai quali veniva chiesto: lei quante volte fa l’amore? E, questi qui, tutti a sbracciarsi a ricordare le proprie ridicole performance, non si sa parametro di quale uomo, di quale essere vivente. Evidentemente sono questi i giornali nazionali che ci meritiamo. Fatto sta che ora qualcuno ci spinge a pensare diversamente. Senza alcun preconcetto, con nessuna voglia di mettere da parte il corpo con tutte le sue dolcissime vibrazioni, finalmente ci racconta qualcosa di meno scontato, ci spinge a vedere oltre la piatta rappresentazione del sentimento, ci permette di essere vicini ad uno sguardo complesso, ambiguo, contraddittorio – il regno del reale, molto più reale delle amene puerilità d’un Grande Fratello televisivo, aberrante volontà di non vedere, di mancato interesse per la sacralità del vero.
In questo film si vuole e non si vuole, si desidera, si rinuncia, si perde, si falsifica a se stessi, ci si lascia affogare da una volontà dolorosa per perseguire ciò che non è uguale, per non imitare ciò che è stato già vissuto, per fuggire ciò che potrebbe essere e non si vuole che sia. Per la prima volta, dopo tanto, ci ricordiamo che possiamo essere bugiardi a noi stessi. Manteniamo, così, un segreto che racconteremo a qualcosa d’inanimato. In quel momento lì crederemo d’essere diventati un po’ più liberi, un po’ più veri. E saremo, per qualche istante, più felici. Siamo nel regno del vero, signori. La finzione più profonda e dolorosa è lì che conduce.

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