Milano 20 – "Mugabe and the white African", di Lucy Bailey e Andrew Thompson – Fuoriconcorso Extr'a.

MugabeL’estrazione televisiva di Lucy Bailey e Andrew Thompson non nuoce a Mugabe and the white Afrcan un lavoro che resta intenso e partecipato. Il racconto di una storia di razzismo al contrario che funziona nella sua drammatica tensione e valorizza il cinema come strumento efficace per colmare i vuoti che l’informazione pur capillarmente diffusa non riesce a gestire.

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Merita attenzione questo documentario realizzato da due registi televisivi. In Mugabe and the white African gli autori raccontano una storia di cui le cronache non si occupano. Nello Zimbabwe del presidente Mugabe la riforma agraria è stata realizzata in odio agli africani bianchi. Lo Stato rivendicando in favore dei neri le terre che appartengono legittimamente ai bianchi, di fatto ha scatenato una campagna d’odio razziale nei loro confronti. Lo scatenarsi di bande di razziatori che con la violenza contro gli uomini e le cose si appropriano delle fattorie dei bianchi abbandonandole poi al completo degrado, fa da scenario al racconto dell’odissea della famiglia Campbell.

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Mike Campbell, agricoltore banco e legittimo proprietario di una grande fattoria, dopo l’ingiunzione ad abbandonare la proprietà per realizzare la redistribuzione delle terre, con la piena solidarietà della sua famiglia, trascina davanti ad un tribunale internazionale il governo del suo Paese accusandolo di violazione dei diritti umani e discriminazione razziale. La violenza usata sulla famiglia, durante il processo, non impedirà a Mike e a suo genero di proseguire nella battaglia legale. La vittoria sarà effimera.

Una storia di razzismo al contrario. Una ennesima storia drammatica che Bailey e Thompson raccontano con partecipazione intensa tanto da far diventare il documentario quasi un thriller, una vicenda che nel suo drammatico sviluppo avvince lo spettatore come accadrebbe in qualsiasi film caratterizzato dal coinvolgente plot. È ovvio che in questo caso il dolore e le lacrime, il sangue e il dramma sono assolutamente veri così come è purtroppo realissima la dissennata politica dittatoriale che attualmente domina lo Zimbabwe.

Si sente indubbiamente l’estrazione televisiva dei due autori del documentario, ma in realtà la qualità che caratterizza il documentario va ricercata sia nell’aspetto più strettamente giornalistico del loro lavoro, rispetto al quale va riconosciuto il merito di avere lavorato, in qualche misura, su uno scoop per il mondo occidentale, sia nella tensione narrativa che sicuramente la storia di per se contiene, che però i registi riescono a scandire e a gestire con solido mestiere trasformando la vicenda personale della famiglia Campbell in una severa denuncia del razzismo che, quando praticato, non può avere alcuna giustificazione.

Piuttosto il film induce ad una riflessione su quanto accade in ogni angolo, anche nel più remoto, del pianeta, e come questi avvenimenti restino assolutamente ignoti nell’era della comunicazione capillarmente diffusa. Il cinema, il mezzo audiovisivo in genere, resta consapevole del proprio ruolo e dell’efficacia che può avere, all’interno dei perversi procedimenti di esclusione delle informazioni, nel colmare un vuoto che non può essere ignorato.

Il razzismo è una brutta storia, suggerisce un sezione del festival di Milano e resta sempre una bruttissima storia e lo capiamo profondamente quando vediamo nel film di Bailey e Thompson, i volti sfigurati di Mike Campbel, di sua moglie e del genero dopo la violenza usata contro di loro. L’inaccettabile scopo di una ingiusta e solo pretesa “uguaglianza” produce l’odio e la frattura tra le etnie che Lucy Bailey e Andrew Thompson raccontano benissimo così come i loro drammatici primi piani ci raccontano la paura vera, il dolore vero e le storie vere di questo angolo di mondo.

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