Monteiro, la furia e la danza

È morto a 64 anni il regista, attore e scrittore portoghese Joao Cesar Monteiro, lo sguardo più originale e coraggioso tra quelli delle "nuove onde europee". Esordì nel '69 poi, a metà tra Straub e Jerry Lewis, tra ascetismo e burlesque, ha raccontato senza ipocrisia virtù e grandezze lusitane dal medioevo ai giorni nostri

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Joao Cesar Monteiro, scrittore, critico, poeta, attore ma soprattutto regista portoghese di raffinata sapienza luministica e spaziale, di devastante potenza etica e estetica, è morto l'altro ieri a Lisbona dopo una lunga malattia dalla quale, ancora una volta, sembrava miracolosamente guarito: già si annunciava un'altra sua pellicola «insostenibile» e destabilizzante… Come le due «pellicole dell'assurdo e della crudeltà», da lui anche interpretate, che in Italia sono state più viste, amate e premiate, Ricordi della casa gialla (1989) e La commedia di Dio (1995), che la eMik diffonde in vhs ( www.emik.it ) e che vinse il gran premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia. La mostra del Nuovo cinema di Pesaro, Torinogiovani, e la rassegna di Salsomaggiore prima ancora, avevano un particolare amore per il «cinema novo» portoghese – la fronda culturale che aveva denudato Salazar e Caetano del loro sfondo imperiale e macho di cartapesta già dai primi anni sessanta. Un vero rispetto per Antonio Reis (anche lui poeta e cineasta radicale, geniale e furente, scomparso troppo presto) ma una passione e una complicità enorme per il più rosselliniano di tutti, Joao Cesar Monteiro. Il più moderno dei cineasti lusitani, assieme all'anziano – dunque ancora perfettamente «interno» alle avanguardie storiche – Manoel de Oliveira: abbasso l'ideologia dello spettacolo, lo star system, la finzione romanzesca, il rapporto «teatrale» con il pubblico. Al pubblico si chiede lavoro più che piacere, o magari lo si invita a quello strano piacere di lavorare dentro il testo…

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Figlio unico e pestifero di famiglia giacobina di Figueira da Foz (località balneare e cosmopolita del centro-nord, sede di un importante festival del cinema), con una «inclinazione perversa» per il sesso opposto, scappa a Parigi per vedere La corazzata Potemkin (a Lisbona proibito) e, all'uscita, «ha una gran voglia di andare a vedere un film», proprio come scriveva Douchet. Rientrato e scartato dall'esercito perché esageratamente sottopeso, critico militante e mordace, organizzatore di cineclub, vivacissimo fino alla buffoneria dadà, borsista della «benemerita» fondazione armena Calouste Gulbenkian, studi di regia a Londra (anzi non mette piede a scuola, preferisce studiare «La battaglia di San Romano» di Poalo Uccello alla National Gallery), Joao Cesar Monteiro, fisicamente, era simile alle sculture medievali dei santi mistici più disincarnati, alla Ghirigiz, se ricordate i disegni di Lunari su Linus. Ma, coraggiosissimo, mai piegabile, fu sempre il baluardo dei Cahiers du cinema in terra lusitana e collaboratore acuto di Trafic fino alla morte di Serge Daney. Scopritore di attori, come Luis Miguel Cintra e – colta forse fin troppo presto – Maria de Mederios, ha lottato sempre, con le armi di Benigni e Jerry Lewis e la inamovibilità di Straub e Godard, per un «cinema di qualità» originale, unico, popolare e sofisticato, difficile ma esportabile ovunque, come unica carta spendibile dai filmakers portoghesi per sopravvivere: troppo esiguo il pubblico del Portogallo per pianificare film di genere, troppo poco alfabettizzato quello delle ex colonie, troppo differente linguisticamente e culturalmente quello dei cugini brasiliani.
Incapace di ogni ipocrisia Monteiro si fece espellere, giovane, da Jorge Brun do Canto, presidentedella corporazione registi dell'epoca, per aver definito in un'intervista a Diario de Lisboa troppi suoi colleghi, Antonio de Macedo in particolare, delle «scimmie ammaestrate in un baraccone». Non fu mai tenero coi registi dal tasso servile esageratamente alto o con gli arrivisti, con gli«spiriti maligni dell'immaginario» e lottò sempre contro la censura e l'autocensura di ogni tipo, anche contro chi rende a volte digeribile o magari consolatorio o solamente un po' più «vendibile» o europeo un buon progetto. «Non credo più all'Europa, non credo più alla Nazione, non credo più alla moneta unica. Come tutti sono preoccupato dell'egemonia tedesca. Non voglio diventare tedesco».

Con gli altri suoi colleghi invece, con il «gruppo del Và Và», si allea subito (Rocha, Lopes, Cunha Telles, Vasconcellos e Seixas Santos). Filmcritica nel 1996 da in premio tradizionale «bastone» proprio al cineasta (poeticamente e politicamente) anarchico più affascinante e imprevedibile, capace di guardare bene negli occhi, in stile Rossellini/De Sade, miti, riti e orrori del modo portoghese di essere. Crudeltà e cinismo di una borghesia terriera e incestuosa che non cede un grammo della sua mostruosità nonostante le «rivoluzioni dei garofani»; antica scienza del dominio sadico esercitato per quattro secoli in stile global; insuperabile tecnica schiavistica e coloniale poco riciclabile nell'abbuffata di stile postmodern. Dalle favole e leggende medievali (Veredas, 1977; Tradicionais Portugueses, 1979; Silvestre, 1981) dove aggredisce gli archetipi culturali che paralizzano il paese nel suo viaggio al termine della notte portoghese si trasforma in un Nosferatu dei giorni nostri, nella trilogia di Joao de Deus, predatore burlesque e rivoluzionario, erede di Chaplin e Keaton: «I miei sono film politici alla maniera greca, un intervento negli affari pubblici».

È morto appena compiuti 64 mentre si ricordava Minnelli (a 100 anni dalla nascita) e Dreyer (retrospettiva di Pordenone). Due cineasti opposti, amati e incorporati nei suoi film. Come Celine coreografato da Berkeley.
(da il manifesto – 05 Febbraio 2003)

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