Oscar insanguinato

Versione un po' sottotono della notte degli Academy Awards: gli artisti americani sfilano con la spilletta della pace, ma il “silenzio degli innocenti” domina la serata. Nessuno se la sente di sfidare il "neomaccartismo" hollywoodiano. Ipocrisia rotta per un breve attimo dall'urlo di Michael Moore, (oscar per "Bowling for Colombine"): “Vergogna!”

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Mentre cala la notte su un altro giorno di guerra, si accendono le luci, lo spettacolo incomincia. Sembra di essere precipitati in un sogno delirante, direttamente all'interno di uno specchio rotto la cui proiezione luminescente ci rimanda ad un fuoricampo terribile e lontano, il vero protagonista di questa irreale notte degli Oscar. Scorrono le prime immagini dal Kodak Theatre, flagranti, piene, riassuntive come il loro solito, ma stavolta paiono contaminate al loro primo apparire dalla presenza/assenza di un ipertesto che ci rimanda automaticamente ad altro. Ecco, ci siamo per non esserci, perduti nell'automaticità postumana dello show must go on, del suo perfetto controllo, della sua micidiale configurazione. Non possiamo essere più gli stessi, mentre lo siamo, aderenti ad un'idea di messinscena invisibile (tant'è, nonostante gli sforzi normalizzanti della regia e delle battute di sempre del pur bravo Steve Martin). Spettatori per forza dunque, volenti o nolenti, il mondo relegato fuori, l'Oscar ha bisogno di essere rappresentato anche quest'anno. E così è. Si parte come al solito dalle categorie minori, come il miglior film animato, e vince il bellissimo Spirited away di Miyazachi, peraltro distribuito a settimane anche in Italia. La sua è animazione, ma al tempo stesso rielaborazione di una miscela immaginifica che lambisce il miglior cinema, con una carica dirompente in fatto di oscillazione di uno sguardo ostinato nella sua mutazione. Gli attori si avvicendano sul palco, quasi tutti fanno finta di nulla, se non fosse per una spilla (pro pace) che campeggia sugli abiti di alcuni. E' sicuramente poco, ma si tratta di un segno, di un link appunto, che ri-configura le traiettorie sin troppo anguste e limitate della sala. Chicago inizia la sua scalata con la vittoria per la miglior scenografia e per i costumi, certo è che il nostro Ferretti meritava sicuramente di più. Il lavoro fatto con Scorsese è di quelli che lasciano senza fiato, proprio nella misura in cui Gangs of New York riprende il discorso sul cinema delle origini, attualizzandolo in una sorta di frenetico omaggio ad un cinema che non c'è più. Una riscoperta del cinema delle origini dunque, a cui Ferretti ha donato la maestria di un talento che comunque non ha certo bisogno di conferme. Tutto scorre liscio fin quando non si giunge al premio per il miglior documentario che vince il Michael Moore di Bowling for Columbine. E' un momento caldo, Moore è noto per le sue idee politiche piuttosto accese, qualcosa dovrà dunque pur dirla. Sale sul palco, prende in mano la statuetta, e incomincia ad inveire pesantemente contro la realtà fittizia in cui siamo immersi, contro un presidente fittizio e così via: «A nome anche di tutti gli altri candidati a questo premio – ha detto Moore – siccome ci piace la realtá, vorrei dire che purtroppo viviamo in tempi fittizi, in momenti in cui c'è un presidente fittizio che viene eletto, un uomo che ci manda e ci porta in guerra per ragioni fittizie. Se la realtá è fittizia, noi siamo contrari a questa guerra. Vergogna, vergogna – ha urlato Moore – anche il Papa è contro, Bush sei finito!». Dalle retrovie dell'enorme sala avanza qualche fischio, poi timidi applausi, e la parola di Moore viene sfumata dalle note invadenti del classico stacchetto che pone fine al verbo. Ma Micheal continua a parlare, agitando le polveri di un labiale che proviamo a leggere, ma niente da fare. Il cinema/politica è questione di temp(ism)o. E Moore è sfociato fuori tempo massimo, con la furia di una passione (quella che peraltro traspare dall'interessante Bowling for Columbine) che ha finalmente schiodato un po' tutti dal grigio torpore della serata. Avanti allora con il premio ai migliori attori non protagonisti. Tra gli interpreti vince il Chris Cooper di Adaptation, l'ennesimo film di Jonze che non ci ha convinto nemmeno un po', un cinema risolto già prima di essere avviato, uno sguardo freddo e distante che non mostra mai cedimenti di nessun tipo. Cooper è sicuramente bravo, ma il premio, senza pensarci due volte, lo avremmo dato all'incredibile Walken di Prova a prendermi.

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L'attore americano è un grandissimo interprete che esce fuori al suo meglio soprattutto quando gli viene riservata una parte di contorno (basti ricordare la sua interpretazione nel Basquiat di Schnabel). E comunque in Prova a prendermi (opera che avrebbe peraltro meritato qualche cosa) ruba praticamente la scena a tutti. Peccato, sarà (forse) per un'altra volta. Miglior attrice non protagonista allora. Ci aspettiamo di vedere premiata la Moore di The Hours, ma vince Catherine Zeta-Jones, con un pancione che non gli ha impedito poco prima di esibirsi in un pezzo musicale proveniente da Chicago. Nel film di Marshall è sicuramente brava (certo più vitale della compassata Zellweger). Mentre scatta la standing ovation per l'Oscar alla carriera a Peter O' Toole, facciamo un primo bilancio della serata. Mediocre come sempre, ma quest'anno più delle altre volte. Si gioca a raffreddare la scena a imbalsamare i corpi in spazi e tempi più che limitati e fin'ora sono state rispettate quasi tutte le previsioni. Passiamo allora alla miglior sceneggiatura originale e non. Stavolta siamo perfettamente d'accordo. Almodovar per lo script originale di Parla con lei e Polanski per quello non originale del Pianista. Sono due film importanti, due opere che, in modo diversi, filmano il dolore, la sofferenza, la tragedia della morte che si riperpetua nella vita. Molto ben anche per il premio alla migliore canzone originale di Eminem per 8Mile, una specie di contentino comunque per una delle opere più intense e forti dell'anno. E' il momento del miglior film straniero e ci viene subito in mente il Kaurismaki di L'uomo senza passato (una delle sue opere più risolte e riuscite, una ricapitolazione di tutto il suo cinema senza gli intellettualismi freddi di Juha), ma il premio va a Nowhere in Africa, su cui comunque ci asteniamo. Eccoci allora quasi in coda, giusto in tempo per il premio (inaspettato) a Brody come miglior attore per Il pianista a alla Kidman per The Hours. Brody nel film di Polanski è eccezionale, riesce ad incidere sul suo corpo/cadavere ambulante i segni di una tragedia che lo portano comunque a sopravvivere, e fa suo il senso dell'opera proprio lavorando sugli spostamenti calati direttamente nell'inferno delle macerie. Non c'è dubbio però, il premio lo avremmo dato al Day Lewis di Gangs. E' un interpretazione la sua che vale una vita, una performance folgorante in cui l'attore incarna all'interno dello stesso spazio finzionale la doppia anima dell'America delle origini, con un paio di sequenze in cui tocca forse lo zenith dell'intensità espressiva di questi ultimi anni. Grande sorpresa poi per la miglior regia. Tifiamo Scorsese, ci aspettiamo Marshall, e invece vince il presente/assente Polanski. Marshall si rifà poi per il miglior film, Chicago appunto, come da pronostico. Che dire? Alla fine Chicago ha vinto sei Oscar, Scorsese come al solito nessuno, mentre la grande sorpresa è stata appunto quella del Pianista con ben tre Oscar. Siamo contenti per il regista polacco, la sua è un'opera importante che non sfigura accanto agli altri suoi capolavori, certo è che Scorsese qualcosa meritava. In Gangs è epico /romantico/ selvaggio/ melodrammatico/ tradizionale/ sperimentale. Incarna insomma perfettamente tutte le aporie del cinema di oggi, elevandosi ad artefice di un progress cinematografico infinito, ma forse non tutti l'hanno capito. Che dire poi degli assenti? Ce n'erano parecchi anche stavolta (lo Spiderman di Raimi lo avremmo visto volentieri in competizione, così come tanti altri), ma non è appunto una novità. L'Academy ha premiato un cinema artefatto e poco inspirato come quello di Chicago, anche se l'opera non ha realizzato il pieno che si immaginava. Siamo alle prime luci dell'alba, lo spettacolo è appena finito, un altro sta purtroppo per cominciare.


Ma è un'illusione, in realtà non si è mai fermato.

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