Pachinko – La moglie coreana, di Soo Hugh

La serie Apple filtra 70 anni di storia di migrazioni coreane attraverso la cronaca intergenerazionale di una famiglia. È uno dei mélo più potenti sulla condizione degli stranieri in terra nipponica

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Nel corso della visione di Pachinko – La moglie coreana quel che cattura immediatamente l’attenzione è l’ampio respiro con cui la serie articola la narrazione, e insieme veicola il suo reale intento comunicativo. Alla base del racconto risiede infatti l’ambizione di documentare 70 anni di storia delle comunità di migranti coreani attraverso le drammatiche vicende di una singola famiglia, costretta ad fuggire (e di conseguenza a “sopravvivere”) in Giappone dopo l’occupazione nipponica della Corea. Con l’obiettivo cioè di affiancare alla presentazione dei sacrifici di un nucleo famigliare, la tragica cronistoria di una popolazione sanguinante, condannata alla perenne relegazione sociale in virtù delle “umilianti” radici culturali di provenienza.

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Il risultato dell’ambiziosa operazione è qualcosa di incredibile. Adattato dal pluripremiato romanzo di Min Jin Lee, Pachinko – La moglie coreana rilegge i percorsi dei singoli membri di una famiglia attraverso la figura matriarcale di Sunja, di cui vengono mostrate tre versioni distinte (bambina, ragazza e anziana) in altrettante epoche differenti. Come un fil rouge inter-spaziale, la protagonista lega spazi e tempi tra loro distanti, alla stregua di un corpo-satellite attorno a cui ruotano le storie dei suoi discendenti/consanguinei. Solo così il racconto può abbattere le barriere cronologiche tra ambienti e periodi diversi, per allineare le varie dimensioni (e i personaggi che vi si muovono all’interno) sullo stesso piano. Secondo un approccio espressivo potente, in linea con l’ambizione di partenza sia da una prospettiva narrativa, sia da una propriamente contenutistica. Il continuo avanti-e-indietro del racconto si svolge perciò sempre in direzione dell’enfatizzazione (melo)drammatica. Seppure i singoli protagonisti sono separati dall’onda del tempo, ogni loro azione ne suggerisce intrinsecamente un legame inter-temporale, che li accomuna tanto nelle vicende quanto nelle condizioni esistenziali. Mettendo ad esempio in relazione le difficoltà incontrate da Solomon (Jin Ha) nel concludere un affare nella Tokyo del ’89, con le sofferenze giovanili di sua nonna Sunja (Kim Min-ha) ai tempi dell’approdo ad Osaka nel ’31, Pachinko – La moglie coreana vuole stabilire la pariteticità delle situazioni tra membri della stessa famiglia, con un andamento che ne esalti la reciprocità in funzione di una drammatizzazione sempre più intensa e appagante.

Un approccio associativo, quello della serie, che la showrunner Soo Hugh e i registi Kogonada e Justin Chon enfatizzano soprattutto in termini comunicativi. La comparazione di eventi distanti, che coinvolgono personaggi e realtà culturalmente differenti, è il mezzo narrativo con cui Pachinko – La moglie coreana afferma l’inesorabilità di una condizione comune, da cui nessuno di essi può veramente evadere. Tutti i protagonisti sono infatti degli zainichi, degli stranieri coreani in terra giapponese, portatori perciò dell’ineluttabile onta dell’umiliazione. Sono persone “dal sangue sporco” che analogamente ai personaggi di Go (Isao Yukisada, 2001) e de L’impiccagione (Nagisa Ōshima, 1968) non saranno mai accettati come cittadini regolari. E per quanto anelino ad una possibilità di integrazione, attraverso ad esempio l’esercizio del potere come fa il mercante/yakuza Ko Hansu (Lee Min-ho), o mediante l’attivismo politico come Isak (marito di Sunja), ad essi non sarà mai concesso di vivere come gli omologhi nipponici. Un’istanza disumana dall’aspetto intramontabile, a cui la serie dà concretezza grazie alla presentazione unitaria (e condivisa) di sacrifici e esperienze comuni.

E in un contesto storico/narrativo come quello di Pachinko – La moglie coreana tutto deve comunque convergere sulla figura di Sunja. È lei la testimone dello scorrere del tempo, e insieme del lentissimo progresso societario. Nel passaggio dalle fragilità della sua infanzia alla fermezza emotiva della senilità, transita l’intero nucleo programmatico della serie. Solamente l’anziana donna (interpretata ora dalla veterana Youn Yuh-jung di Minari), dopo aver sopportato per decenni una vita di discriminazioni e sacrifici, può pacificare il sentimento di non appartenenza grazie ad una sua definitiva accettazione. Una traiettoria dall’esito tragico, che allo stesso tempo nasconde in sé i semi della speranza. È nella battaglia quotidiana con l’alterità che gli zainichi possono (e devono) individuare le matrici di un percorso liberatorio, che li porti col tempo a placare il continuo senso di sfasamento. Solo così è possibile conformarsi ad un ambiente ostile, e (ri)trovare i mezzi per tornare a vivere all’ordine del giorno. “Let’s live for today!” chiosa infatti la sigla di apertura, all’inizio di ogni episodio. Quasi a certificare l’indirizzo di un racconto, che sin dal principio desidera intrecciare traiettorie all’insegna della più lucida e toccante contemplazione della quotidianità.

Titolo originale: Pachinko
Regia: Kogonada, Justin Chon
Interpreti: Kim Min-ha, Lee Min-ho, Youn Yuh-jung, Jin Ha, Soji Arai, Kaho Minami, Mari Yamamoto, Felice Choi, Jimmi Simpson, Anna Sawai, Park Hye-jin, Louis Ozawa, Jeong In-ji, Yu-Na, Noh Sang-hyun, Jung Eun-chae, Han Joon-woo, Park Jae-joon, Lee Dae-ho
Distribuzione: Apple Tv+
Durata: 8 episodi da 47-63′
Origine: USA, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
Sending
Il voto dei lettori
3.33 (3 voti)
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