#PerSo2018 – Gustavo Salmerón presenta Muchos hijos, un mono y un castillo

Il regista presenta il film vincitore del Goya 2018, che racconta 15 anni di filmati familiari, una mamma esilarante che accumula oggetti e la ricerca disperata di un pugno di ossa perso in casa

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“Non voglio che tu faccia questo film, ma perché al pubblico dovrebbe interessare la mia storia? Julia, madre del regista e attore spagnolo Gustavo Salmerón e protagonista del documentario vincitore del Goya 2018 Muchos hijos, un mono y un castillo in concorso al Perugia Social Film Festival 2018 non è per niente convinta di diventare l’oggetto di un film. Ma a questo punto, non c’è molto da fare: ormai è da 15 anni che il figlio la segue quotidianamente con la telecamera, dopo un giorno in cui, per caso, ha scoperto che sullo schermo sua mamma diventava un incrocio tra “Gena Rowlands e Meryl Streep, come racconta lo stesso Salmerón dopo la proiezione al Cinema Méliès. Ma anche se continua a lamentarsi, la nostra Julita si lascia ritrarre, sorride e fissa lo sguardo in macchina, mentre dice al figlio qual è l’inquadratura giusta, come dovrebbe iniziare e finire il film. Così, si trasforma nel suo proprio paradosso, nell’oggetto sfuggente di un ruolo che ormai è stato suo sin dall’inizio.

Forse essere ripresa da una telecamera è l’unico modo di sfuggire alla morte e la decadenza, argomenti che ai suoi 81 anni la ossessionano e non la lasciano

dormire. Julia convive con centinaia di scatole e oggetti inerti accumulati da una vita che occupano ogni angolo e che lei resiste a buttare via, come se fossero l’estensione di se stessa, la possibilità tangibile di essere scartata un giorno anche lei. “In ogni oggetto c’è un pezzo della mia vita. Per ogni cosa che butto, muore una parte di me”, dice mentre custodisce il suo regno fatto di pezzi e ricordi che minacciano di sparire. La matriarca, la regina, la donna che si ripiega, che dice di essere stata falangista, poi repubblicana, poi massona, la bambina che sin da piccola sognava tanti figli, una scimmia e un castello – e che è riuscita ad avere tutte e tre, oggi sembra non avere più sogni, ma soltanto due desideri: morire prima di suo marito ed essere infilzata con un ferro sottile prima della cremazione, “per avere la certezza che sia morta davvero”.

Più che la morte, filmare le ossessioni della madre diventa la fissazione del regista, un processo che non riesce a trovare una chiusura ma continua a ripiegarsi infinitamente. Salmerón va avanti con le riprese – anche del padre, dei fratelli, dello sgombero del castello di famiglia, di 15 anni di Storia della Spagna – costruendo un personaggio straordinario e momenti veramente esilaranti, ma senza una direzione chiara, dissolvendosi pure lui davanti e dietro lo schermo, per entrare a far parte degli oggetti, dei ricordi, dei pezzi che la mamma s’impegna a tenere insieme anche se le sfuggono. Quello che comincia come un aneddoto – la ricerca delle vertebre della nonna che Julia aveva messo in una scatola anni fa e che adesso nessuno riesce a trovare – diventa poi la rappresentazione della volontà del regista, che gli permette anche di prendere una certa direzione. L’atto di seppellire queste ossa, e soprattutto sapere dove sono finite, è l’unica chiusura possibile per un regista che si rende anche lui corpo cinematografico, carne e ossa del suo filmato, che sente il peso della propria storia in ogni inquadratura, che non vuole spegnere la telecamera forse per paura di perdere se stesso, che non vuole lasciar andare la madre neanche come oggetto filmico. 

All’incontro dopo la proiezione del film – un’ora e mezza di catarsi e risate collettive – Gustavo Salmerón si presenta davanti al pubblico in camicia guayabera, pronto a raccontare tutto su sua madre. “Il film è nato dalla necessita di liberare qualcosa. Spinto anche da una ricerca personale dei miei antenati e della storia della Spagna in relazione ai miei genitori e la mia famiglia. Poi, a volte quando andiamo a trovare i nostri genitori la domenica sopportarli diventa molto difficile. Invece, se vai lì con una telecamera e ti concentri su quello, è molto più semplice, anche divertente, stare con loro”. Subito arriva la domanda cruciale: Ma Gustavo, cosa ha detto tua madre? Qual è stata la sua reazione dopo aver visto il film? Il montaggio è durato due anni e lei l’ha visto tante volte. Non le piaceva mai e devo dire che nemmeno a me. Dopo l’aiuto di tanti sceneggiatori, consulenti, tante persone – è stato difficile, erano 400 ore di filmato – finalmente mi è piaciuto. Quando lei ha visto che cominciava a piacermi ha detto: anche a me piace! Ma non era vero, in realtà mi vedeva disperato, filmando in casa con questa telecamera da solo, tutta mia famiglia pensava che avevo perso la testa, che non sarei riuscito a concludere niente. Poi, dopo il premio Goya e tanti riconoscimenti internazionali, lei ha cambiato idea. Adesso, Julia è diventata una star in Spagna, quindi diciamo che è contenta!“.

A quanto pare, il film non è concluso. Oppure, un’ora e mezza non è abbastanza per un pubblico che rimane irrequieto, che non è neanche pronto a lasciare andare Julita, il personaggio e la donna, che in un certo senso vuole “sotterrare” le vertebre e dare una chiusura a ciò che hanno appena visto. Gustavo prova a soddisfare la curiosità: “Allora, dopo aver trovato le vertebre, io volevo sotterrarle per una questione personale, per chiudere un ciclo, onorare i parenti.
Volevo che le ossa fossero anche una metafora della storia della Spagna, dove ci sono cerca 150 mila persone che si trovano nelle fosse comuni, ci sono tantissime famiglie alle quali non è stato permesso di seppellire i propri cari. Invece nel film c’è l’opportunità di seppellire le vertebre, ma lei non vuole… quindi è tutto un grande paradosso”.

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