#PesaroFF56 – A metamorfose dos pássaros, di Catarina Vasconcelos

Il bisogno della memoria e il desiderio diventano l’unica forma dell’immaginazione, per trasformare la morte in allegra visione di una natura che risana le proprie ferite. in Concorso

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A metamorfose dos pássaros è un film la cui lavorazione ha richiesto sei anni, tanto il tempo necessario a dare forma ad un’opera già da considerarsi totalizzante, nonostante la giovane età della regista, che vuole ricostruire, senza alcuna concessione ad una consueta linearità narrativa, ma con strumenti e metodi istintivi e (dis)organizzati, il proprio passato familiare quel non vissuto che la ossessiona. Quel passato che appartiene ai suoi nonni Beatriz ed Henrique. Lui, un ufficiale di marina, stava per mesi lontano dalla famiglia. Jacinto, figlio della coppia e padre della regista, quando la madre morì aveva 17 anni.
Da questi fatti e dalla prematura scomparsa della madre che estende con decisa impronta il costante confronto con la morte, nascono le riflessioni di Catarina Vasconcelos in questo film così ricco di richiami personali che, nella metamorfosi evocata fin dal titolo, accompagnati da questi sviluppi che sanno evocare identiche sensazioni di assonanza mnemonica, sono capaci di diventare patrimonio collettivo e comune anche dello spettatore. L’autrice sa trasformare la sua vicenda familiare in riflessione sulla vita e sulla morte, sul decisivo concetto di tempo dentro il cui orizzonte si manifestano i due eventi che trovano sintesi magnifica così nel ricordo trasformato e così nelle immagini del film, in un passero morto cui viene dedicato un funerale improvvisato.

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È complesso ricostruire lo sviluppo di un film in cui è l’immagine a farsi portatrice di quei segni essenziali che rigenerano la memoria, attribuendole un valore essenziale e irrinunciabile. Il cinema, ancora una volta, diventa l’unico dispositivo possibile per dare voce, forma e orizzonte visivo ad una specie di fantasmatica presenza di storie che sembra navighino nella coscienza, restituendo forma ai comportamenti del presente. Noi siamo quello che è stato il nostro passato sembra dirci Catarina Vasconcelos. A sua volta, il suo cinema è l’unico strumento che, scandagliando quel remoto passato, lo fissa sul nastro facendolo diventare un film. Catarina Vasconcelos sa trovare, in questa sua ricerca del tempo definitivamente perduto, la strada per una ricostruzione di una sua identità, una ricerca che, utile al suo presente, comincia dal traumatico evento del piccolo falò che il nonno Henrique fa delle lettere d’amore della sua Beatriz. Il tempo, in quel gesto che sembra cancellare d’impeto ogni traccia, pare essere davvero consumato e per sempre perduto con l’addio definitivo a quella storia d’amore che il fuoco lentamente divora. Ma è da quelle ceneri che la memoria sembra dovere rinascere. È per queste ragioni che A metamorfose dos pássaros, sembra un film già quasi definitivo nonostante la giovane età dell’autrice portoghese. Un’opera nella quale il desiderio di ricomposizione di questi fantasmi, figure visivamente infantili che popolano le immagini del film come presenze quasi amichevoli, avviene mettendo a frutto le proprie qualità artistiche affinate presso l’Accademia londinese. Vasconcelos utilizza quelle forme del fantastico degli scenari del sogno, quelle nascoste nei frammenti dei ricordi infantili, nei colori immaginati e nelle immagini rovesciate che ripetono gli sguardi sul mondo, nei richiami della memoria attraverso gli oggetti, nella forza evocativa della natura e in tutte le altre forme della vita che, filtrate dal ricordo o che fanno da filtro al ricordo, servono a comporre il ricco puzzle del proprio passato. A metamorfose dos pássaros, finisce con il diventare una piccola e non trascurabile lezione di cinema, un film che rompe quella staticità della catalogazione diventando un diario delle proprie sensazioni e mai una narrazione lineare dei fatti, né un documento che possa tracciare con esattezza e altrettanta continuità i ricordi familiari.

Legami familiari che si intravedono decisivi per la regista portoghese, in questa specie di costante convivenza con il mondo del passato che diventa pratica quotidiana. Forse il tratto più interessante del film è proprio questo, la capacità, tutta appartenente al mondo sognato, al mondo onirico che è il primo riferimento del cinema, di trasformare la materia sensibile del ricordo in molteplici visioni che si sovrappongono e non definiscono perfettamente la memoria, ma servono ad evocarla. Assomiglia tutto questo ad un processo esclusivamente artistico di trasformazione della materia prima in un simulacro mutevole dell’oggetto da rappresentare. In questa modalità di costante abitazione del sogno artistico, Catarina Vasconcelos si trova a proprio agio e mutuando dal proprio passato cinematografico, tracce evidenti di forme di elaborazione di De Oliveira, ad esempio, ha realizzato il suo film intrecciando memorie e considerazioni, testi letterari a cominciare dallo smarrimento di Ismaele nel mitico romanzo di Melville e le espressioni pittoriche delle nature morte che sembrano, utilizzate in quella accezione, condensare la ricercata congiunzione tra il mondo metafisico di un al di là sconosciuto con il mondo fisico che viviamo. Forse è proprio questa la ricerca composta, ma allegramente disordinata di Vasconcelos, che il cinema diventi passepartout, ponte gettato tra le due sponde delle vite possibili, canale di comunicazione tra un mondo sconosciuto e il mondo che in parte conosciamo. La memoria e soprattutto il desiderio, ma forse meglio, il bisogno della memoria, diventa l’unica forma dell’immaginazione, l’unica chiave che trasforma la morte in allegra visione di una natura che risana le proprie ferite, come nella bellissima invenzione delle foglie che, aiutate da una mano sapiente, tornano ad attaccarsi al ramo dal quale sono state staccate. Ancora una volta un’immagine per spiegare quello che non è spiegabile, per rivelare il vero scopo della intera costruzione. È la prematura morte della madre il motivo principale che spinge Vasconcelos a riannodare tutti questi fili, per dare pace ad una inquietudine che condivide con il padre. Il film, trova la sua vera ragione di esistere, quella di dare una possibile interpretazione a questo dolore che altrimenti, diventerebbe intollerabile.
È l’interpretazione del cinema in Catarina Vasconcelos a colpirci, a segnare con decisione il nostro presente di spettatori, a mostrarci quanta bellezza nel passato ci sia, quanta verità possiamo trovare nel nostro presente e quanto il cinema si faccia necessario per farci entrare in questo mondo magico e sconosciuto dal quale siamo attratti e che, con quelle immagini, possiamo provare a costruire come unico balsamo per i tempi oscuri che viviamo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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