Pordenone Docs Fest 2023 – Le voci del documentario

Fra le suggestioni del festival giunto alla XVI edizione spicca un’attenzione particolare per la produzione contemporanea di cinema di found footage. Ecco The Camera of Doctor Morris e Karp Code

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Fra le innumerevoli suggestioni del Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario, festival giunto alla XVI edizione e organizzato da Cinemazero, spicca (fra le tante) un’attenzione particolare per la produzione contemporanea di cinema di found footage, in particolare del riutilizzo dell’home-movie. Con esempi quasi paradigmatici dei recenti, spesso inediti, approdi estetici del panorama contemporaneo.
E’ il caso di The Camera of Doctor Morris, diretto dagli israeliani Itamar Alcalay e Meital Zvieli che racconta la storia, a partire dagli anni ’50, di una giovane coppia inglese che in luna di miele si ritrova a Eilat, una piccola città nel deserto nell’estremità nord di Israele. Dottor Morris e consorte scelgono di stabilirsi lì e per il resto della loro vita, l’eccentrico medico filmerà incessantemente la loro quotidianità con la sua cinepresa Super8, senza tralasciare nessuna pagina, comprese quelle più drammatiche. Come la scomparsa della primogenita Aviva, affetta dalla sindrome di Down. Anni dopo la morte dell’uomo, i due registi entrano in possesso dei preziosi nastri e scoprono non solo un’inedita testimonianza dell’epoca ma anche un raffinato cineasta amatoriale. Capace di strutturare linguisticamente un filmino di famiglia con la stessa abilità di un professionista. The Camera of Doctor Morris sceglie dunque di mostrare unicamente i nastri di Morris e di lasciare in voice over i ricordi della moglie e dei figli del medico. Nonostante un sovradosaggio di post sonorizzazione, a volte disarmonico, del materiale d’archivio, Alcalay e Zvieli sono abilissimi nel tessere un racconto struggente e articolato. Appoggiandosi all’oralità, mai banale, della famiglia Morris ma soprattutto alla potente narrazione per immagini, che non scivola mai in una sterile auto-rappresentazione, imbastita dall’uomo.

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C’è anche chi però, quasi sfregiando la sacralità dei canoni, sposta ancora più al limite le traiettorie del riutilizzo del film di famiglia. Si tratta della cineasta cecoslovacca Lucie Králová, regista del curioso quanto lodevole Kapr Code, 90 minuti di “opera documentaria” che mette letteralmente in musica la vita del geniale e controverso compositore Jan Karp. Figura chiave della musica moderna ai tempi dell’Unione Sovietica; prima esaltato al punto da vincere il prestigioso Premio Stalin e poi messo gradualmente a tacere dal regime per colpa della sua integrità artistica. Un’esistenza controversa e ambivalente che la regista sceglie di non trasformare nel classico documentario biografico ma bensì in una composizione, realizzata apposta per il cinema, di musica operistica. Analizzando lettere, appunti, rapporti di polizia, resoconti politici, nastri magnetici ma soprattutto i filmini in Super8 che Kapr si divertiva a girare dentro e fuori le mura domestiche. Mettendosi quasi sempre davanti alla macchina da presa e aprendo squarci quasi slapstick sulla sua vita in apparenza così rigorosa. Diviso in otto atti, un intervallo e l’epilogo, diciassette cantanti lirici del Czech Philharmonic Choir di Brno cantano la vita di Karp attraverso un libretto operistico composto per l’occasione da Jiří Adámek e che ripercorre le tappe essenziali della vita del compositore.

Dalla scoperta della musica alle vicissitudini familiari fino all’amicizia con il cantante lirico dissidente Pavel Ludikar, che gli procurò non pochi guai con il governo. Alternando l’archivio Super8 di Karp e le sequenze del coro che prova e si esibisce (con qualche intermezzo brechtiano), Lucie Králová compie la duplice operazione di completare ma al tempo stesso fare da contraltare, con la luce abbagliante dell’alta definizione, ai raschiati home movies di Kapr. Tutti vestiti di nero, immersi in un bianco asettico, i cantanti del coro riflettono anche nel corpo le oblique geometrie della musica del compositore. Debitrice sì della rivoluzione espressionista di Arnold Schoenberg ma forse ancora più audace nella sperimentazione e nella sostituzione delle regole tradizionali con la dissonanza. Le sequenze “odierne” di Karp Code diventano così prima scheletro del materiale d’archivio, poi colonna sonora dello stesso, quasi un’appendice indispensabile per la sua decodificazione. Uscendo dalle convenzioni postmoderne della pratica del riuso ed entrando concettualmente in una dimensione altra.

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