Rachel McAdams. A caccia dei raggi di luna
Corpo sensibile che si fa immagine al di là di ogni restrizione e che si apre al mondo, liberando nelle pieghe della sua carne tutte le presenze. E’ la libertà dei segni quello che Rachel McAdams sempre più coscientemente va inseguendo. In sala con Questione di tempo
Un volto che, in un intimismo quasi scandaloso, non delimita il Cinema, piuttosto lo espande all’infinito e che, con i suoi lineamenti puramente affettivi, diventa capace di annullare lo spazio tra dento e fuori, questo è Rachel McAdams. Corpo sensibile che si fa immagine al di là di ogni restrizione e che, dunque, si apre al mondo, liberando nelle pieghe della sua carne tutte le presenze che si agitano oltre il dato unicamente raffigurativo. E’, allora, la libertà dei segni quello che Rachel McAdams sempre più coscientemente va inseguendo nel suo percorso attoriale fatto di linee che continuano a cambiare direzione, liberandosi in tal modo dalla fissità imposta dal ruolo, anche quando, come ne Il Buongiorno del mattino, sembra condannata a soccombere all’ipertrofia recitativa che le viene richiesta da Roger Michell. O quando, come nella scacchiera di ribaltamenti prospettici di Kevin MacDonald nel sublime State of Play, sembra avere solo il ristretto spazio di movimento di una pedina.
Per questo, nella danza di vuoti e di assenze di To the Wonder, mentre Malick continua a spingere i corpi a camminare, per sempre, sull’orlo dell’abisso, al di fuori di ogni traccia narrativa, per farne puro spazio ottico delle infinite sfumature delle emozioni, Rachel McAdams trova finalmente quella libertà di movimento che è andata pazientemente cercando nel corso della sua carriera. La domanda che Malick ripete incessantemente lungo tutto To the Wonder, “cosa significa esistere?”, alla fine è la stessa che la McAdams continua a inseguire e a farci inseguire, film dopo film.
Per questo, nella danza di vuoti e di assenze di To the Wonder, mentre Malick continua a spingere i corpi a camminare, per sempre, sull’orlo dell’abisso, al di fuori di ogni traccia narrativa, per farne puro spazio ottico delle infinite sfumature delle emozioni, Rachel McAdams trova finalmente quella libertà di movimento che è andata pazientemente cercando nel corso della sua carriera. La domanda che Malick ripete incessantemente lungo tutto To the Wonder, “cosa significa esistere?”, alla fine è la stessa che la McAdams continua a inseguire e a farci inseguire, film dopo film.
Il successo di Mean Girls le spalanca le porte del cinema. Rachel McAdams viene chiamata da Nick Cassavetes per diventare il doppio corpo risorto dal passato di Gena Rowlands in Le pagine della nostra vita, adattamento dell’omonimo romanzo di Nicholas Sparks impaludato in una struttura che raggela il melodramma nella fissità di un rigido compiacimento estetico. L’unica a liberarsi dal formalismo in cui il film rimane impigliato è proprio la McAdams, magnifico corpo desiderante che si apre un varco oltre la bidimensionalità dello sguardo di Nick Cassavetes per liberare, finalmente, uno spazio puro dell’emozione. Ed è proprio in questo “spazio” del Cinema, capace di allargare all’infinito i confini dell’immagine che Rachel McAdams vuole muoversi.
Il sorriso aperto e semplice del soldato Colee, che in The Lucky Ones accompagna, con la sua ingenuità disarmante, il ritorno di Tim Robbins e Michael Pena in una patria dove non c’è più alcun posto per loro, è la porta d’ingresso per accedere in uno spazio altro, tutto interiore, dove il volto diventa la somma infinita delle sue sensazioni. Così come, la stessa magnifica solitudine dello sguardo che anima Rachel McAdams in Un amore all’improvviso, densissima storia d’amore attraverso e oltre il tempo malamente sciupata da Robert Schwentke, e ne La memoria del cuore, dove, con l’aiuto di Channing Tatum, deve rimettere insieme i cocci della sua vita sentimentale dopo aver perso la memoria, si libera ben presto dai limiti assegnati al personaggio e diventa corpo espressivo di affetti e affezioni che ne mutano continuamente la forma. E anche quando, in 2 single a nozze, si trova a far poco più che da spettatrice alle spassose scorribande della coppia Wilson/Vaughn, o in La neve nel cuore è relegata sullo sfondo di una commedia corale dal sapore dolceamaro, o ancora, in Midnight in Paris è l’insopportabile fidanzata viziata di Owen Wilson, si ritaglia momenti che, nelle tensioni che scorrono sottopelle lungo nei controcampi del suo volto, aprono squarci inaspettati su un intero mondo emotivo che scorre parallelo alla narrazione. Come l’imbarazzata lettura delle parole scritte per celebrare il matrimonio della sorella o quello sguardo puntato sulla fotografia della madre.
Il primo a cogliere con la coda dell’occhio che la ricerca della McAdams si muove attraverso una silenziosa fisicità che, sempre più, tenta di oltrepassare i propri limiti, disfacendo il corpo per renderlo spirito e perdendosi nelle diverse maschere indossate, più o meno consapevolmente, dai suoi personaggi, in un superamento della decifrabilità delle apparenze, che solo l’obliquità dello sguardo di De Palma saprà poi vedere fino in fondo, è Wes Craven. E Craven, non a caso, la sceglie per duettare con Cillian Murphy nel suo thriller ad alta tensione, Red Eye, tutto giocato sull’attrito creato dalle verità nascoste dietro maschere indossate per celare le presenze che si muovono oltre la superficie delle cose. E’ la stessa complessità, seppur in un personaggio completamente opposto, che Rachel McAdams cerca in tutti i modi di imprimere all’Irene Adler di Sherlock Holmes, ma con il suo cinema che si compiace solo di farsi “beffe dei corpi e degli spazi con un’incuranza sempre blasfema e imperdonabile”, Guy Ritchie non solo vanifica ogni suo tentativo, ma non neanche è in grado di vederlo. Come già accennato, è nell’ambiguità delle immagini riflesse e sdoppiate di Passion, dove ci si perde un gioco senza fine di smascheramenti, che Rachel McAdams, alle prese con un ruolo per lei inconsueto, quello dell’enigmatica donna di successo, bella, sicura di sé e senza scrupolo alcuno, finalmente viene lasciata libera di sorprendere fino in fondo la macchina da presa con la “sua capacità di moltiplicarsi e, insieme, di sparire".
Ancora una volta è la scomposizione del volto. Mascherato, diviso, scomparso, rivelato nelle sue molteplici forme. Allora, non si può non tornare a Terrence Malick. Se c’è una risposta possibile alla domanda “cosa significa esistere?”, sta prorprio nell’immensità delle parti che eccedono l’immagine stessa e finiscono per far sfumare nell’infinito ogni suo riferimento. E’ quanto sembra dirci Rachel McAdams mentre in To the Wonder continua ad andare a caccia dei raggi di luna.
Ancora una volta è la scomposizione del volto. Mascherato, diviso, scomparso, rivelato nelle sue molteplici forme. Allora, non si può non tornare a Terrence Malick. Se c’è una risposta possibile alla domanda “cosa significa esistere?”, sta prorprio nell’immensità delle parti che eccedono l’immagine stessa e finiscono per far sfumare nell’infinito ogni suo riferimento. E’ quanto sembra dirci Rachel McAdams mentre in To the Wonder continua ad andare a caccia dei raggi di luna.
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