Rapito – Intervista a Marco Bellocchio, Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi
Abbiamo incontrato a Torino il regista e i due interpreti del film presentato sulla Croisette e ora in sala. per farci raccontare la lavorazione di Rapito e la costruzione dei personaggi
«Naturalmente sapevo del remake de I pugni in tasca, ma che il progetto fosse in una fase così avanzata l’ho scoperto l’altro giorno a Cannes!». Marco Bellocchio non ha bisogno di presentazioni. Il suo Rapito, film ispirato alla storia vera del piccolo Edgardo Mortara strappato alla famiglia ebrea per essere cresciuto da cattolico, non ha fatto in tempo a meravigliare la Croisette che è già giunto al cinema. L’autore piacentino quando parla guarda lontano e ciò ha perfettamente senso. Fausto Russo Alesi, ormai storico collaboratore di Bellocchio che ha vestito i panni di papà Salomone “Momolo” Mortara, invece guarda a terra, in profondità, come ci si aspetterebbe da un tre volte Premio Ubu. Mentre Barbara Ronchi, già presente in Fai bei sogni e fresca del David di Donatello per Settembre di Giulia Steigerwalt, nell’opera la madre Marianna Padovani in Mortara, non interrompe mai il contatto visivo facendo esplodere tutta la potenza di quei suoi occhi color del mare. In una pausa fra dibattiti nelle sale torinesi, abbiamo intervistato i due interpreti e il regista.
Marco Bellocchio, come a volte capita per i film, anche Rapito nasce da un’immagine precisa?
Ma non è che ti appaia la Madonna! [ride] È che a volte la casualità non è pura casualità… Un giorno ho visto in libreria la copertina di questo libro sul rapimento di Edgardo Mortara, di cui non sapevo assolutamente nulla, e quindi mi ha colpito quell’immagine lì. Inoltre, il curatore del memoriale di Mortara, Vittorio Messori, è un ultracattolico e all’interno del testo difende il papa cercando di dimostrare come in quella conversione non ci fosse nulla di violento. Insomma, ne parla come di un accadimento che aveva aperto la porta al mistero della fede e si scaglia contro certi giornalisti anglosassoni dell’epoca che avevano interpretato la vicenda come un abuso sessuale. Io credo si sia trattato di un abuso esclusivamente psicologico e non ho mai pensato a un Pio IX depravato. Piuttosto a uno che voleva affermare, con quelle due parole latine, “Non Possumus”, l’impossibilità di liberare il bambino perché essendo stato battezzato era cristiano per sempre. Quindi c’era anche questa idea che quelle due gocce d’acqua sulla fronte possano determinare il destino di un essere umano. Questo mi ha colpito e certamente c’è di mezzo qualcosa che riguarda la mia autobiografia perché mia madre era molto osservante e scrupolosa. Secondo il credo cattolico bisogna vivere in funzione non di questa vita ma dell’altra, e quindi morire non battezzati è un peccato mortale. Questa cosa credo abbia determinato in me una rabbia particolare nei confronti dei preti e della chiesa in generale perché per molto tempo mi ha fatto paura. Sono partito da questo.
Nella scena in cui libera Cristo dalla croce, Edgardo può ancora scegliere?
Quel momento è soprattutto legato al precedente incontro con la madre. Gli hanno messo addosso una corazza e questa, mentre con il padre riesce ancora a tenere, si spezza nell’abbraccio disperato e commosso con lei. C’è poi un voler in qualche modo salvare la famiglia e la chiesa, e quindi liberare il Cristo significa anche dire “La mia razza non è più responsabile della sua morte”.
Barbara Ronchi, cosa ti ha colpito in particolare del tuo personaggio?
Il provino che ho fatto riguardava proprio il momento in cui la madre torna a prendere Edgardo e di solito ti danno da provare la scena più importante… Infatti mi sembrava che quel momento condensasse il suo dramma perché lei si gioca un po’ tutte le carte per riavere questo bambino indietro. Mi sembrava ci fosse un insieme di intimità, commozione, amore, paura di essere stata dimenticata… paura che questo bambino non l’amasse più, ecco. Insomma, c’è il tentativo di farlo reinnamorare di lei quindi era una scena che mi dava la cifra di quello che era tutto il personaggio.
Fausto Russo Alesi, tu hai lavorato più volte con Marco Bellocchio e Momolo sembrerebbe il personaggio più complesso e strutturato che avete costruito insieme fino a questo momento.
In realtà ogni volta è un viaggio diverso ma sempre molto intenso. Anche con Falcone ne Il traditore, che però aveva un perimetro di altro tipo, sono potuto andare in profondità. Invece Cossiga in Esterno notte e Momolo in Rapito hanno sicuramente più spazio: sono due personaggi che devono cercare di risolvere un problema, una tragedia enorme, in pochissimo tempo. Qui poi c’è il dramma peggiore che si possa vivere, che ti venga tolto un figlio dall’oggi al domani, un abuso di potere che subisci ma contro il quale devi provare a reagire. E di fronte a un evento così traumatico a cosa ti aggrappi? Io non lo so, perché per fortuna non mi è mai successo, ma ho cercato di entrare in empatia con questa vicenda. Dall’altro lato le tematiche del soggetto sono fortissime e universali. Nel film, pur collocato storicamente, c’è una sensazione di complessità senza tempo e io ho cercato di abitare questa complessità. I sentimenti di questo padre sono molteplici: l’impotenza, la paura… Ma abbiamo cercato di restituire anche la sua mitezza, la speranza e la fiducia nel suo credo e nella giustizia, che gli fanno attraversare la storia con le armi del dialogo. Ecco, questa cosa mi piace molto perché penso sia significativa dentro i conflitti che la vicenda mette in campo.
Com’è essere diretti da Marco Bellocchio?
F.R.A.: È un grande regalo! Ed è bellissimo perché c’è un grande rispetto dell’attore da parte sua, un seguirti ponendosi accanto, spesso sussurando, consapevole che stai abitando un luogo non tuo e quindi abitandolo insieme a te. Pian piano si scoprono delle cose e ci si lascia contaminare da quello che succede in quel momento e anche da zone misteriose che poi sono quelle zone in cui lo spettatore si ritrova a farsi delle domande, a confrontarsi con sé stesso. È veramente uno stare nella complessità delle cose. Quindi è anche bello il lavoro di costruzione perché, in base a ciò che hai fatto il giorno, prima il giorno dopo metti in campo altri ingredienti, andando a dialogare con quanto esiste già e scoprendo sempre qualcosa di nuovo. Perché poi siamo fatti di contraddizioni, di luce e ombra, e quindi anche le reazioni inaspettate al testo, le modifiche in corso d’opera mentre incroci lo sguardo dell’altro attore o del regista, ti possono portare appunto in luoghi totalmente diversi.
B.R.: È molto semplice girare un film con Marco Bellocchio perché lui ama talmente tanto gli attori, è talmente disponibile ad ascoltarti, ad accogliere proposte, a cambiare, facendoti sentire questo suo amore, da spingerti a fare sempre meglio perché vuoi restituire quella fiducia che ti viene accordata. È un grande regalo! Senti la stima che ha per te, il suo desiderio di proteggerti.
Come vi siete trovati a lavorare con Enea, il bambino che interpreta Edgardo da piccolo?
M.B.: Il discorso è molto semplice… A un bambino non puoi dire tante cose, ma più che altro metterlo a suo agio e passargli alcuni messaggi importanti non di dettaglio oppure di dettaglio ma su azioni precise, come l’intonazione delle battute, senza provare a spiegargli il personaggio. Ad ogni modo, lui l’aveva capito abbastanza in profondità e questo è stato importantissimo per il film. Addirittura gli ho sentito dire che certe volte non era soddisfatto di come faceva una scena, sostenendo di poterla fare meglio. E poi bisogna dire che questo bambino non era battezzato, non era mai entrato in una chiesa, non aveva nessun bagaglio di riferimento. Eppure ha imparato perfettamente le preghiere cattoliche ed ebraiche assorbendo le diverse situazioni. Sul set il clima era di totale sostegno. Anzi, a un certo punto temevo che l’acting coach Tatiana Lepore volesse insegnargli a recitare e ne rovinasse la spontaneità. Mentre lui quando piangeva, piangeva veramente. Ma questo si può dire anche di Fausto e Barbara… Io metto sul piatto una certa esperienza e quando un attore si sforza lo considero un fallimento, mentre qui hanno fatto bene tutti.
B.R.: A volte c’è questa incomprensione per cui ai bambini viene richiesto di dire le battute giuste e bene, per cui anche loro possono entrare in una ripetizione che non porta più niente di autentico. La cosa che invece aveva Enea, e che non hanno tutti i bambini, è proprio che lui ascoltava. Si metteva in una posizione di ascolto che è quella in cui ci mettiamo noi, fra colleghi, quando sappiamo che la cosa più importante è rispondere a ciò che ti viene proposto. Con lui era lo stesso: tu potevi anche cambiare, e lui cambiava con te. Questa è una sua specialità. Diciamo che recitare con i bambini può essere molto noioso quando uno di loro ripropone una maniera giusta, mettendo d’accordo gli adulti, perché gli si dica che è stato bravo. Questa è una stortura del sistema, e invece lui era libero.
F.R.A.: Intanto, la cosa veramente bellissima è aver avuto la sensazione che Enea fosse felice di essere lì, senza alcuna forzatura, cosa importantissima per un attore su un set. Già questo ci metteva in sintonia con lui in un certo modo. E poi l’altra cosa bellissima, che non tutti i bambini e non tutte le persone fanno, è il canale della fiducia che lui aveva completamente aperto e sul quale si costruiva l’ascolto. E quindi ci sorprendevamo continuamente l’un altro. Un insegnamento meraviglioso per gli attori adulti, perché se chiudi il canale della fiducia pensi solo a te e fai danni.