RASSEGNE – Nuovo Cinema Ungherese

Lo scorso settembre a Roma una straordinaria rassegna sul cinema ungherese ha presentato film degli anni '90, firmati dai nuovi giovani talenti magiari – tra cui Peter Gothar, Bela Tarr e Ildiko Enyadi – e due personali dedicate a Istvan Gaàl e Miklos Jancsò. Un'occasione memorabile per autori divincolati faticosamente dalle maglie censorie

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Nel mese di Settembre, al cinema Nuovo Olimpia di Roma, si è svolta una straordinaria rassegna sul cinema ungherese. Undici erano le pellicole degli anni novanta, firmate dai nuovi giovani talenti magiari – da segnalare soprattutto Peter Gothar, Bela Tarr e Ildiko Enyadi – e due erano le "personali" dedicate a grandi maestri: Istvan Gaàl e Miklos Jancsò. Un'occasione memorabile per autori divincolati faticosamente dalle maglie censorie.  Non c'è dubbio che costoro hanno rappresentato i nomi più eccelsi del "nuovo" cinema ungherese (insieme a Istvan Szabò). Già, nuovo, ma in che senso?

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Nuovo nel senso di rinascita, di trasformazione, dopo i disastri della guerra; è la prerogativa delle cinematografie dei Paesi Orientali in via di ristrutturazione sociale e politica, liberate dall'occupazione tedesca dall'avanzata delle truppe sovietiche. Il periodo postbellico segnò anche per l'Ungheria la scoperta del cosiddetto "realismo socialista". Il cinema nazional-popolare, con forti venature ideologiche, riguardava però più il recente passato, la guerra, la Resistenza, che non i problemi della ricostruzione culturale. Il "realismo" così inteso comportò sul piano formale una sorta di retorica estetica scaturita da un certo didatticismo di fondo. L'analisi critica della realtà passava indiscutibilmente al vaglio delle idee ufficialmente accettate. È questo il nuovo nel cinema ungherese?


È naturale che manchi un tassello; siamo ancora in una fase di assimilazione, di ricezione passiva. Ci vorrebbe un "disgelo", una presa di coscienza rigeneratrice. Negli anni cinquanta si avvertirono i vagiti di una ripresa, soprattutto dopo i fatti del 1956. Zoltan Fabri s'impose sicuramente come il migliore regista prima della "nuova ondata", di cui è stato in larga misura il maestro e l'ispiratore. La sua opera più significativa, Venti Ore, straborda, come vero manifesto del nuovo cinema, di pregnante pessimismo sotteso alle profondi contraddizioni della società ungherese. Quando il cinema giungerà a mescolarsi e a confondersi con il travaglio etico, politico e sociale, in cui l'Ungheria sarà ormai persa, saremo approdati all'età dell'oro: gli anni '60 e '70. Questi sono gli anni di una radicale crisi di identità, gli anni dell'eroe moderno che vive un profondo contrasto con la società: da qui il senso di sconfitta, e la nascita di un "realismo critico" verso la società stessa. A questo punto è proprio il cinema magiaro a godere di un ruolo di punta nel rinnovamento culturale del Paese, contribuendo in modo determinante al processo di formazione della coscienza civica. Una coscienza che avrà fatto i conti con una realtà immobile, quasi sospesa nel tempo tanto appariva priva di ogni impulso vitale nella sua forzata staticità.


Nel 1963, Istvan Gaàl porta alla realizzazione il suo primo lungometraggio, Corrente. Il fiume Tibisco, simbolo del movimento embrionale, ancora però non è del tutto conosciuto e "domato". In quelle acque muore un giovane in una giornata di svago passata con un gruppo di amici. L'irrompere brusco, improvviso, violento della morte ha un effetto deflagratore nell'anima dei protagonisti, costretti per la prima volta a fare un bilancio della propria esistenza. Nel fiume si specchiano ragazzi ormai non più adolescenti egoisti e privi di solidarietà. Il corpo del giovane è andato giù e le responsabilità individuali di ogni ungherese tornano a galla. Prende avvio la nouvelle vogue magiara con Gaaàl, che nelle successive opere le aspirazioni di realismo e i riferimenti autobiografici si fondono interamente all'allegoria politica. Nel 1970, con I falchi, il regista vince il premio della Giuria al Festival di Cannes. Un giovane ornitologo si ribella al capo di una stazione per l'addestramento dei falchi che impone rigide regole e ricorre alla violenza per farle rispettare. L'anno successivo invece con Paesaggio morto l'occhio è volto al fenomeno della fuga di massa dalle campagne, provocata dalla pianificazione industriale e dall'inurbamento. Protagonista assoluto è il paesaggio deserto e desolato di un piccolo paesino dell'entroterra. Gli unici che non mollano sono una coppia e un'anziana donna. Alla morte di quest'ultima i "superstiti" precipitano lentamente nello stesso deperimento vissuto dall'ambiente che li circonda. Per tutto il film si respira un'aria di solitudine e di progressivo dissolvimento dei valori e degli affetti. Per accentuare gli effetti di abbandono e di desolazione del paesaggio Gaàl ricorre per la prima volta al colore e utilizza tutte le tinte e le sfumature proprie dell'autunno. Il quarto film presente nel festival è Orfeo e Euridice del 1985. Grande prova di versatilità questa. È un film-opera in cui il regista, partendo dal libretto di Christoph W. Gluck, lascia inalterata la parte musicale e si limita a intervenire sul racconto, astraendo gli episodi essenziali direttamente dalla versione mitologica: la morte di Euridice, la discesa di Orfeo negli Inferi, il tragico finale. Il mito come strumento assoluto di mediazione dei contrasti esistenziali: la vita e la morte, l'umano e il non umano. Per il regista è il capitolo definitivo dell'analisi del "male di vivere" dell'uomo. Attualmente Istvan Gaàl sta lavorando su una serie di tre episodi dedicata alla figura del grande compositore ungherese Béla Bartòk in cui la materia prima sono immagini, musica e le parole del musicista. La musica che compone Gaàl, la sua opera d'arte sarà il montaggio, la sintonia perfetta.


Più di Istvan Gaàl, forse però il più conosciuto regista della "nuova ondata" degli anni '60, è Miklòs Jancsò. A Roma sono stati proiettati sei suoi film. I disperati di Sandor e Silenzio e grido, rispettivamente del 1965 e 1968, sono senza dubbio i titoli più rappresentativi insieme con L'armata a cavallo del 1967 (assente dalla programmazione). Queste tre opere possono essere considerate i capitoli di un unico romanzo epico-lirico. La trilogia affronta due momenti cruciali della storia ungherese, due episodi di soffocamento dello slancio rivoluzionario popolare e pur rifacendosi ai film storici tradizionali di stampo realistico, il regista ha manipolato i materiali per ricavarne dei significati, per caricare le azioni di doppi sensi. È proprio con la trilogia storica che il regista raggiunge le vette formali dell'applicazione sistematica e articolata del piano-sequenza. Qualsiasi analisi e comprensione del cinema di Jancsò non possono prescindere dall'approfondimento teorico e formale del piano-sequenza. Antonioni, Mizoguchi, Welles, Hitchcock, Godard, Rossellini, Anghelopoulos, Wyler, Dreyer riecheggiano nell'immaginario quando si tratta di considerare il piano-sequenza come mezzo esemplificativo dello stile, della filosofia o ideologia cinematografica ma anche del metodo di lavoro di questi maestri che lo hanno adottato. Anche il grande regista ungherese lo ha utilizzato con rigore, continuità e passione. L'applicazione sistematica scaturisce dalla consapevolezza e dalla definizione di un metodo formale sulla base degli stimoli in particolare del cinema di Antonioni che, come lui stesso ha confessato, lo ha influenzato per i movimenti dei personaggi e l'uso del paesaggio. Una forma che è tutt'uno con le sue scelte contenutistiche: il rifiuto del realismo, della poetica del Realismo socialista ma anche del propagandismo di segno rovesciato, delle categorie del cinema occidentale tradizionale (l'intreccio, la psicologia, il ritmo narrativo), la predilezione per materiali storici da plasmare, la manipolazione della storia, l'intenzione di giocare con i fatti. Jancsò durante le riprese costruisce sempre una lunga sequenza di cinque minuti circa, e costituisce un'idea intorno alla quale struttura i movimenti e i suoi piani-sequenza interagendo tra due elementi dinamici: le azioni vere e proprie, cioè i momenti drammatici, e i passaggi che legano i vari nuclei, cioè gli spostamenti dei personaggi e della macchina da presa che li segue. Ne I disperati di Sàndor piccole bande di ribelli cercano di contrastare il potere austriaco a venti anni dai moti ungheresi del 1848. I dominatori domeranno la rivolta, soprattutto nell'animo. Nel Silenzio e grido, all'indomani della caduta della Repubblica dei Consigli nel 1919, una nuova spietata repressione si estende alle regioni più remote del Paese. I ribelli più pericolosi vengono fucilati, mentre gli uomini sospetti vivono sotto stretta sorveglianza dell'esercito.  In questi film i dati cronologici e ambientali sono volutamente imprecisi e generici e la narrazione procede per elementi staccati; i continui movimenti di macchina e i lunghissimi piani-sequenza costituiscono uno stile avvolgente per una quasi completa identificazione del tempo scenico con quello reale. Ma questa presunta identificazione allontana ulteriormente l'aspetto realistico. Il continuo girotondo dei personaggi assecondato dai perenni movimenti di macchina creano lo spazio scenico e costringe lo spettatore a spostare l'attenzione dai fatti narrati alle ragioni e alle motivazioni dei vari comportamenti individuali e collettivi.

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