Red Post on Escher Street, di Sion Sono

Sion Sono racconta in tono da commedia, ovviamente borderline e sempre oltre i limiti del suicidio creativo, di film, amore, libertà. Questa sera a Roma al Farnese per l’Asian Film Festival

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Lo sguardo di Sion Sono in Red Post on Escher Street resta molto libero, dentro una scrittura organizzata in uno sviluppo abbastanza lineare. Un regista di tendenza autoriale, Kobayashi, è impegnato insieme alla troupe a cercare dei dilettanti per interpretare i personaggi nel suo prossimo film, “La Maschera”, titolo già abbastanza emblematico per descrivere un scatola di finzioni. L’attenzione è rivolta soprattutto alle audizioni delle protagoniste femminili, ed i provini diventano l’occasione di presentare tutta una serie di personalità, ognuna dotata di una caratteristica peculiare.
Come le ragazze appartenenti al Kobayashi True Love Club, ossessionate dal regista, o quelle della Portside Gang, la banda di ragazze più tosta della città, di cui fa parte Natsume, che quando le viene chiesto di descriversi usa queste parole: A dire il vero, sono una troia. Una vera e propria troia. Ho un forte desiderio sessuale ed ho molti rapporti occasionali. Ero una pessima studente, i miei genitori hanno perso le speranze da tempo. Non possono contare su di me. Solo mio fratello è convinto che un giorno avrò successo. Gli adulti mi hanno detto molte volte che sono un’incapace. Ma quando si tratta di recitare, sono totalmente sicura di me. So che, detto così, non vuol dire nulla. In verità, oggi, mi sento molto nervosa. Sì, è una scusa. Il tutto fatto assieme ad una naturalezza in forte contrasto con quelle stesse affermazioni, in un tono complessivo leggero, un minimo di rassegnazione ed imbarazzo, un contesto da commedia. Ma sempre sul limite tra un genere e l’altro, come se correre su un filo sospeso sopra un baratro fosse l’unica alternativa per un cinema estremamente spontaneo. Lo conferma la storia di Kiriko, altra pretendente ad un ruolo, rimasta vedova giovanissima di Makoto e decisa a recitare per seguire le orme di un marito defunto, ad inseguire un’ombra, accompagnata da una madre invadente e dal suocero, ormai suo patrigno. O quella terribile di Yasuko, vittima delle molestie del padre e diventata puro istinto omicida, determinata a schiacciare l’amore al pari di una mosca. Essere innamorati è troppo a buon mercato, dice durante una energica e quasi delirante esibizione.

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Dal quadro emerge questo sottotesto esplicito, un bisogno, una necessità, un’urgenza d’amore, ma l’impossibilità di raggiungerlo, un tema affrontato recentemente dall’autore nel fantastico cortometraggio Kokoduna 19-ji (The Lonely 19:00) sopra un mondo distopico condannato dal virus alla solitudine e gli appuntamenti ridotti ad un evento eccezionale. Le relazioni sono sepolte, viziate, corrotte e la felicità irraggiungibile, condizionate da un desiderio irrefrenabile, da una passione malata o soltanto da convenienza nel caso di Ririka ed Hirona, star già affermate da piazzare nel cast su richiesta del produttore, perché amanti di gente importante, mantenute da politici ed attori di spicco. Un insieme caotico, perfetto per rappresentare la gestazione di un film nei suoi passaggi progressivi, dagli iniziali problemi di budget e di scrittura, il reclutamento del personale, ed arrivare nella seconda parte in un set pieno di imprevisti, dove le comparse sono audaci ed hanno ambizioni attoriali. Una categoria secondaria che ruba per una volta il palcoscenico in una sorta di ammutinamento performativo.
Sion Sono avvicina la tragedia anche con un uso semplici di musica e suoni, rende percepibile il dolore insensato, gli impulsi incontrollabili, entra nell’universo del peccato capitale senza emettere giudizi morali, sempre ineluttabile, sempre senza filtri di censura, non ha bisogno di circoscrivere aprioristiche condanne, in osservanza delle attuali richieste di mercato, consapevole con la forza delle immagini di catturare brandelli di esistenza, piene del buio e della luce e di avere a disposizione un innesco molto potente. Quanto può sembrare banale e ripetitivo, perfino comico, può contenere una sciocca forza ambivalente. Intanto si prende beffa di un apparato produttivo sull’orlo di una crisi di nervi, pieno di posizioni approssimative, cialtroni e saltimbanchi vari, per sconfinare in una ingestibile apoteosi finale, ed introdurre l’argomento più scottante, rimasto in trasparenza, quello della libertà. E rivendica l’esigenza di ribellarsi dalle catene prestabilite, un atto dovuto soprattutto nel campo creativo, pieno ormai di strutture adatte solo a logiche di profitto e ipocrite battaglie alla moda.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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