Ricardo et la peinture, di Barbet Schroeder

Straordinario documentario sul processo creativo di Ricardo Cavallo, che permette a Schroeder di riflettere sul rapporto tra arte e vita e sulla contemplazione del mondo. #TFF41 Fuori Concorso

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Un film sull’atto creativo e sulla sua divulgazione. Sulla sua scoperta. Sul suo rapporto con la vita. L’ottantaduenne Barbet Schroeder incontra in Bretagna, nella residenza di Saint Jean du Doight, il pittore francese di origine argentina Ricardo Cavallo. Lo segue nelle caverne rocciose che ritrae in mezzo all’oceano, prima dell’alta marea. Lo intervista in casa facendogli spiegare la sua opera e il suo rapporto con la pittura del passato. Mette in scena anche se stesso in quanto amico del pittore, mentre studiano insieme l’arte greca del V secolo A.C. e il suo legame con Georges Bracque e Pablo Picasso. Visitano musei e ritornano sui paesaggi e sugli elementi della natura che hanno ispirato Cavallo. Parlano di loro stessi, perché nell’opera di Cavallo e nel suo modo di collegare l’arte e la vita si riflette anche quella di Barbet Schroeder, che qui sembra avere, sulla carta, il ruolo dell’amico/testimone, ma in verità diventa una specie di traghettatore tra il pittore protagonista e il pubblico, come se Schroeder stesso finisse con l’essere una sorta di tela bianca su cui scrivere il film, “farlo accadere” davanti agli occhi dello spettatore.

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Del resto è un film di continue rivelazioni ed epifanie Ricardo et la peinture. Un po’ come lo era uno dei capolavori documentari del regista, quel The Bukowski Tapes (1985) fatto di 52 capitoli per oltre quattro ore di converazioni tra lui e Charles Bukowski, dove, attraverso una semplice camera fissa sul protagonista, letteratura e vita finivano con il rivelarsi quasi spontaneamente, in una fiducia totale nel soggetto e nelle potenzialità di registrazione del mezzo cinematografico. Anche qui avviene allora lo stesso tipo di scoperta nei confronti dell’arte e del mondo. Si vedano i passaggi sulle astrazioni di Monet, i rossi di Delacroix, ma soprattutto la magnifica sezione dedicata a Diego Velàzquez, il pittore più amato da Cavallo. Quando Cavallo e Schroeder riflettono sulla grandezza del Ritratto di Innocenzo X come testimonianza del potere e del terrore che emana sembra, per un breve istante, di trovarci davanti quasi a un controcampo della Trilogia del Male dello stesso Schroeder, composta dai magnifici Idi Amin Dada, L’avvocato del terrore e Il venerabile W..

Ad ogni modo Velzquez/Cavallo/Schroeder è solo una delle tante sovrapposizioni di un documentario che cerca, in antitesi alla cupezza del lavoro precedente di Schroeder, appunto Il venerabile W., di filmare la felicità e “l’arte per la vita”. C’è infatti anche l’opera pittorica di Cavallo a imprimersi nello spazio, nel tempo e nel linguaggio del film, con i suoi quadri in formato panoramico che ruotano di 360° e sembrano simulare il movimento della macchina da presa. Quadri astratti che riproducono paesaggi, alberi, inquadrature sul mondo. Quadri composti da singoli pannelli da giustapporre uno accanto all’altro, in un processo che assomiglia al montaggio cinematografico e allo stesso tempo alla composizione digitale di singoli pixel. Così, quasi malinconicamente, quando alla fine il regista e la sua troupe lasciano Cavallo solo nella caverna a dipingere, si avverte il dispiacere di concludere il film, di abbandonare la percezione, la sperimentazione e l’esperienza che Ricardo et la peinture testimoniano. Confermandoci, qualora ce ne fosse stato bisogno, che cineasta umile e immenso è sempre stato Barbet Schroder.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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