#RomaFF – Sanctuary: incontro con Zachary Wigon

Il regista racconta i concetti cardine del suo secondo lungometraggio, un thriller che mescola generi differenti alla ricerca di una nuova identità. Al cinema dal 17 novembre

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“L’idea alla base del film è il fatto che a volte riusciamo a entrare in una versione più vera di noi stessi attraverso la fantasia e il gioco di ruolo. C’è una cosa che diceva David Bowie, quando raccontava del personaggio di Ziggy Stardust, ovvero che lui riusciva ad essere più se stesso, più David Bowie rimanendo all’interno del suo alter ego piuttosto che nella vita reale”

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Si apre con questo spunto il nostro incontro con il regista statunitense Zachary Wigon, il quale, in occasione della Festa del Cinema di Roma, ha presentato a pubblico e critica il suo secondo lungometraggio Sanctuary – già a Toronto nelle scorse settimane. Un film scritto da Michael Bloomberg e distribuito da I Wonder Pictures, in uscita nelle sale dal 17 novembre. Un thriller dall’impianto minimale, interamente poggiato sulle spalle dei due protagonisti Christopher Abbott e Margaret Qualley.

Ebbene sì. Sanctuary è di fatto un gioco di ruolo. Un gioco forse inusuale, ma appositamente studiato dal regista per mescolare diverse tendenze e generi, favorendo dunque una dimensione intertestuale: “Prima di fare il regista io ero un critico cinematografico e ritengo molto affascinante che chiunque abbia visto il film possa fare connessioni con altri prodotti che ha visionato. Effettivamente io avevo un’idea di base quando ho pensato il film, cioè a un collegamento con la screwball comedy, alla Howard Hawks, come La signora del venerdì,  quindi alle vecchie commedie. Allo stesso tempo il film si confronta con il genere del thriller psicologico e erotico. In questo caso mi piaceva l’idea di unire queste due anime e portare lo spettatore su una sorta di montagna russa dove cambiano costantemente le dinamiche e i rapporti con i personaggi”.

Personaggi che, rivela Wigon, “sono stati creati attraverso una serie di conversazioni tra me e lo sceneggiatore, durante le quali ci siamo chiesti come sarebbero dovuti essere Rebecca e Hal e come si sarebbe dovuto sviluppare il rapporto tra i due. In tutto ciò, inoltre, il concetto di giudizio morale è rimasto abbastanza fuori dal progetto, dal momento che ciò che più mi interessava era mostrare queste due persone che mettono in scena desideri veri e rivelano lati psicologici di loro stessi”.

Psicologia, identità, relazioni interpersonali. Concetti che catturano la vera assenza di Sanctuary, una pellicola attentamente elaborata nei suoi aspetti più formali, come dimostra l’attenzione del cineasta alla geografia delle poche stanze che compongono l’intero set: “avevo l’idea che dovesse essere un ambiente con poche finestre perché se ce ne fossero state molte avremmo perso quel senso di claustrofobia che io volevo conferire al film. Un altro elemento molto importante”, prosegue, “era decidere quale fosse il layout della suite d’hotel in cui è ambientata tutta la vicenda, cioè come fosse fatto il luogo, per far sì che i personaggi potessero essere spostati di qua e di là per dare ritmo alla narrazione. Ho inoltre espressamente richiesto colori forti, intensi, così da creare un luogo quasi tattile e richiamare la forte carica emotiva della situazione che i personaggi vivono”.

Da qui anche il significato del titolo, perché la suite diventa una sorta di “santuario, un luogo dove ci si possa sentire protetti, al sicuro dalla pesantezza di quelle pressioni esterne di cui il film sottolinea la centralità.

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