SAN SEBASTIAN 51 – Fantasmi a San Sebastian

Il Jacques Rivette di "Histoire de Marie et Julien" (con una Emmanuelle Béart di leggerezza infusa) ci ha finalmente raccontato la sua storia di fantasmi francesi: misteriosa e intima, sincera e languida come una riflessione sul confine labile che separa i vivi e i morti, l'amore dalla dimenticanza, la carne dallo spirito… Dal nostro inviato.

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SAN SEBASTIAN – Fantasmi a San Sebastian, in cerca di realtà, vagano per il festival sospesi tra passato e presente, evocati da Victor Erice, che torna a casa a trent'anni dalla Concha de Oro conquistata dal sempre meraviglioso El espiritu de la colmena, e da Jacques Rivette, che finalmente mostra in un concorso internazionale Histoire de Marie et Julien, rifiutato sia da Cannes che da Venezia. Entrambi sugli schermi della città basca, protagonisti di un festival che di fantasmi con cui fare i conti, del resto, ne ha altri ancora: dalle tensioni (tutto sommato contenute) legate alla presentazione del documentario di Julio Medem La pelota vasca – La piel contra la piedra, che prende di petto la sanguinosa e dolente questione dell'indipendentismo basco dando la parola a una settantina di protagonisti di ogni parte e idea, ai problemi legati al festoso ma invasivo sit-in dei dipendenti del Grand Hotel Maria Cristina (l'unico cinque stelle di San Sebastian), in sciopero da giorni con tutto l'imbarazzo che ciò può creare all'organizzazione del festival…

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Fantasmi, dunque, che aleggiano sugli schermi di un festival in cui si naviga a vista, sempre in cerca di novità per cui esaltarsi, magari avendo un occhio privilegiato per quel mondo latinoamericano di cui la Spagna e la sua kermesse di bandiera tendono a farsi portavoce. Victor Erice, festeggiato dal festival per quella Concha de Oro che nel '73 finiva per la prima volta nelle mani di uno spagnolo (meglio: basco!), catturata da un capolavoro come El espiritu de la colmena che, passato attraverso le maglie della censura franchista, metteva in sublime e altissima metafora l'incubo di un popolo (di tutti i popoli) stretto nella morsa del dittatore/mostro… Il cinema che evoca gli spiriti e libera lo spirito, nella storia di Ana, una bambina che, travolta dalle suggestioni suscitate dalla visione del capolavoro di James Whale, si muove per le campagne in cerca del Mostro di Frankenstein, per chiedergli perché in riva al lago ha ucciso quella bambina… Momenti di grande poesia, creati da Erice come in uno stato di trance, dietro l'ingenuità lucidissima e pervicace di una bambina immersa in un mondo di sogno, quasi addormentato in quel sonno della ragione che genere, appunto, i mostri della Storia. Un mondo in cui gli adulti sopravvivono astratti dalla realtà (il padre alleva e studia le api dei suoi alveari; la madre scrive lettere a un amante da cui si è separata per la guerra; la tata fatica in casa…) e dove la realtà è uno schermo su cui si proiettano gli incubi dell'incoscio, creati e generati da un'umanità disabituata alla franchezza della natura.

Dall'altra parte del Festival, in un Concorso che sinora ha mostrato alcune cose interessanti e un solo vero capolavoro (il coreano Memories of Murder di Bong Joon-ho, quello di Barking Dogs Never Bite: ne parleremo…), il Jacques Rivette di Histoire de Marie et Julien ci ha finalmente raccontato la sua storia di fantasmi francesi: misteriosa e intima, sincera e languida come una riflessione sul confine labile che separa i vivi e i morti, l'amore dalla dimenticanza, la carne dallo spirito… Julien (uno Jerzy Radziwilowicz pesante e tetro) è un orologiaio alle prese con gli ingranaggi delle vecchie torri e misteriosamente finito a ricattare una antiquaria falsaria; Marie (ovvero una Emmanuelle Béart di leggerezza infusa) è una strana donna che l'uomo incontra e ama e di cui si innamora… Due corpi stretti l'uno all'altro e alla fine un amore che in realtà deve fare i conti con il mistero dell'essenza di questa donna, sospesa spesso su assenze e strani comportamenti, presa dall'arredamento di una camera in cui dovrà celebrare (o forse ha già celebrato…) il suo atto finale, trasparente di un mistero che è tutto nella sua non-vita, fantasma poco gotico e molto sentimentale, che non trova la forza di compiere l'atto di liberazione al culmine del quale dovrà abbandonare il suo amato per andare nel regno delle ombre che le compete. Una sorta di mito di Orfeo al contrario, scandito dal tempo infinito di un autore che sa sempre elaborare un'alta dimensione di verità interiore. Certo, Histoire de Marie et Julien non è Va-savoir né la Giovanna d'Arco… qui Rivette lavora in chiusura, nello spazio interiore, più vicino all'ossessione infinita e infinitiva di La belle noiseuse. Ma non ne raggiunge la tetragona trasparenza, e soprattutto non ne libera sino in fondo le magnifica ossessione. Sicché ha ragione chi lamenta l'eccessiva durata di queste due ore e mezza, perché non sempre in questo caso Rivette mostra di gestire con lucidità la lunghezza dei suoi tempi. Ma di qui a rifiutarlo da un concorso ce ne vuole…

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