Segnale d’allarme – La mia battaglia, di Elio Germano e Omar Rashid

Lo spettacolo teatrale in VR scritto e diretto dall’attore romano è una coinvolgente riflessione politica amplificata dal mezzo tecnologico usato. Allo Scalo di San Lorenzo di Roma

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Quando alla fine di “Segnale d’allarme – La mia battaglia“, un gruppuscolo di ragazzi irrompe inopinatamente in teatro dividendosi in due cavalloni militareschi inneggianti una marcia nazista, un improvviso glitch nella visione in realtà virtuale fa saltare per una frazione di secondo l’immagine facendo temere un salto dello spettatore nella distopia che lo sta circondando nelle tre dimensioni. La minaccia politica dello spettacolo scritto da Elio Germano e Chiara Pagani, passato nell’edizione 2019 di Venice VR e la cui tournée in questa versione a 360 gradi con visore e cuffie sarà ancora sperimentabile gratuitamente dietro prenotazione allo Scalo di San Lorenzo di Roma il 19 e 26 Luglio, trova così la sua serendipità mediale confermando l’intelligenza della scelta dell’attore romano e del co-regista Omar Rashid di proporlo con una tecnologia che ne amplificasse l’immersività.

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Segnale d’allarme – La mia battaglia è difatti un testo che sin dalla sua ideazione vuole proporsi in continuità con la tradizione d’impegno del teatro civile, evitando però le forme classiche della rivisitazione storica o di quella precettistica ma volgendo verso i modi di un monito ragionato e partecipato. Così ecco che Elio Germano, maglioncino a collo alto e jeans consunto da intellighenzia progressista, si presenta chiacchierando informalmente col pubblico sul senso di quello che verrà proposto nei prossimi 70 minuti. Come se il testo fosse aperto alle sollecitazioni, l’attore si lascia andare ad una riflessione generale e generalista sull’attualità sociale, sui linguaggi della democrazia e su quelli del potere partendo da un gioco metatestuale con gli spettatori: se ci trovassimo in un’isola deserta con quali dinamiche organizzeremmo la nostra esistenza? Premieremmo il merito e l’uguaglianza o finiremmo infine, anche in questo microcosmo ideale, per soggiacere al marketing delle competenze in cui si è auto-reclusa questa nostra società?
In questa prima parte i toni affabulatori di Germano, che si muove tra le poltrone della galleria rinunciando significativamente alla pregnanza sopraelevata del palco, toccano tanti argomenti attraverso una retorica populista che usa concetti chiave facilmente sottoscrivibili. Ma è soltanto una messinscena, un adescamento che risuona purtroppo un po’ prevedibile all’orecchio di chi anche in forma privata è abituato alle sirene del populismo: in un’epoca di “politica da influencer“, come dice lo stesso attore romano, le strategie comunicative messe in scena per ottenere il consenso sono usate in maniera fin troppo scoperta.

La gestualità, la riduzione di problemi complessi a soluzioni semplici, l’uso insistito della sfera personale rivelano difatti ben presto la loro natura ingannevole. In una certa maniera l’uso della realtà virtuale riesce ad ovviare a questa problematica del testo perché, dato l’ininterrotto flusso audiovisuale imposto dall’esterno, tutto il nostro corpo non può mai astrarsi dallo spettacolo cadendo perciò con più facilità nell’inganno narrativo. Proprio in questo primo atto si manifestano in ogni caso meraviglie e difficoltà del visore 3D, pur a un livello esperienziale basico in cui si resta passivi come di fronte ad uno schermo e non si ha possibilità d’intervento. Se da una parte infatti il nervoso andirivieni di Germano tra le poltrone richiede allo spettatore, che occupa con le sei telecamere della sua postazione un posto in prima fila, un continuo e gravoso giramento del collo che deficita l’esperienza della visione (in una risoluzione peraltro di non eccelsa qualità), dall’altra è straordinario potersi perdere nelle reazioni emotive degli altri partecipanti. Di fronte alla possibilità voyeuristica di poter posare senza vergogna lo sguardo sulle turgide labbra e i grandi occhi della ragazza rasata dietro di te che accusa vividamente il climax dell’atto finale sulla sua pelle, il rischio di perdere qualche passaggio del lungo monologo del protagonista è alto. La natura programmatica di Segnale d’allarme – La mia battaglia viene comunque fuori con una cesura netta a metà del suo svolgimento, quando Elio Germano abbandona la voce dimessa e complice della prima parte per assumere quella sempre più incalzante dell’opinion-leader, dell’uomo che stanco delle chiacchiere si decide finalmente a spendersi in prima persona nell’agone politico. In questa ambiguità compressa tra visioni ancora accettabili ed azioni non corrispondenti alle premesse/promesse si situa il successo particolare di formazioni ed esponenti politici – il Movimento 5 Stelle e Matteo Renzi, tanto per fare i nomi – che il testo di Germano e Pagani cavalca solo per qualche minuto, badando più al fine che si era posto che ad approfondire anche solo parzialmente questa interessante digressione.
Così ecco che negli ultimi venti minuti di spettacolo le iniziali condivisibili prese di posizione dell’attore sfociano in una deriva autoritaria sempre più marcata. Un abisso di violenza e analisi sempre più xenofobe – il pezzo sulla potenza finanziaria degli Ebrei e adesso degli Arabi occhieggia alla secolare tradizione complottista – in cui finalmente il significato de La mia battaglia esplode nella testa dello spettatore: le farneticazioni di Germano a cui abbiamo inizialmente applaudito sono espunte dal “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Il diario del Male che mai avremmo letto di nostra sponte e con cui credevamo di non avere nulla in comune è stato invece la base di un testo che abbiamo sentito per larga parte vicino, a cui è bastato essere acconciato in maniera decorosa per renderlo presentabile al piccolo teatro di Riccione e all’ancor più esiguo pubblico in realtà virtuale dello Scalo San Lorenzo di Roma.
Ecco allora che la svastica nazista torna (ha mai smesso? mai smetterà?) a sventolare in un palco trasformato in adunata e la cui unica forza di opposizione, paradossalmente, non è il nostro cervello, ancora facilmente malleabile ma la tecnologia. Ecco infatti che l’immagine finale trasmessa sul nostro visore è uno straordinario wall circolare composto da mattoni/sequenze di riprese reali degli orrori in bianco e nero del regime tedesco a cui non si può sfuggire in nessuna misura. Ed allora, sfiniti da questa insostenibile totalità di visione, si affacciano alla mente le parole di un altro testo (facilmente) profetico, “2 + 2 = 5 (The Lukewarm.)“, dei Radiohead: “E’ il regno del diavolo, ora/Non c’è via d’uscita/Puoi urlare e puoi gridare/E’ troppo tardi, ormai/Perché/Non hai prestato attenzione/Non hai prestato attenzione, non hai prestato attenzione, non hai prestato attenzione….“.

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