SPECIALE BLACKHAT – Entropia

blackhat

Pur sembrando guardare a un universo lontanissimo, pur aprendo le porte a una riflessione lucidamente teorica, Mann porta avanti un discorso sin troppo concreto, pesante, materico. Che colpisce e fa male con una potenza di fuoco quasi letale. Perché racconta alla perfezione la nostra solitudine. Da Sentieri selvaggi Magazine n.16

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blackhatStai volando in alto Michael, ma l’aria è troppo leggera lassù…

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Cos’è che mi turba? Forse l’impossibilità di riconoscere la materia esatta del film e delle cose. Che cos’è Blackhat? L’ennesimo colpo di fucile di Mann, di un autore che porta avanti le sue ossessioni, ma al tempo stesso sembra compiere un salto irrimediabile verso un’altra dimensione, in cui il digitale non è più solo la forma delle immagini, ma la sostanza stessa delle cose e del mondo. Rendendo tutta la questione un problema di definizione. Un film di genere, ma di che genere? Un action, un thriller, l’intelligente orchestrazione di una truffa da manuale, un’impossibile fuga fantascientifica, con quelle sequenze assurde nella centrale nucleare? O un mélo evanescente e irriconoscibile?

 

Hathaway è un altro nemico pubblico, come John Dillinger, un fuorilegge che evade dalla prigione, dalla sorveglianza e dalla punizione, opponendo la sua latitanza alla visibilità assoluta pretesa dal sistema, che mette in campo una strategia ripetuta di sparizioni e fughe, pur rimanendo sempre all’interno del mondo, dell’inquadratura, del raggio della visione. Un altro fantasma, dunque, il ghostman che s’inserisce all’interno delle maglie dell’ingranaggio sociale, facendo saltare le sue trame, le economie di potere. Ma nonostante la continuità con gli altri “eroi” manniani, il personaggio resta ancora sfuggente. Dove si colloca? E in cosa consiste ancora la prigione? “L’idea di Blackhat, in qualche modo la questione fondante della poetica di Mann, è quella che ci sia una prigione dalle sbarre invisibili tutto intorno a noi, diremmo wireless, costruita nell’aria stessa che ci circonda, e invalicabile: la tecnologia è il mezzo unico per visualizzare la gabbia, renderla fluorescente, ma solo alcune persone riescono a vedere le connessioni, i collegamenti, i link che formano le pareti a scacchi della cella” (Sergio Sozzo…). Sì, è vero, ma nella sostanza? Contro chi o per cosa combatte, visto che il nemico non sembra aver più neanche un volto e si materializza giusto il tempo di un incredibile showdown? “Neanche io, a volte, so chi sono”…

 

blackhatOrmai è divenuto tutto impalpabile. Al punto che sembra impossibile, allo stato attuale, ragionare in maniera organica, portare avanti un discorso che abbia un inizio e una fine, stabilire un percorso coerente. Forse l’unica è andare avanti per ipotesi, illuminazioni od oscuramenti, piccoli blocchi di file slegati, cartelle di documenti parziali. Senza più la possibilità di raccontare una storia. Del resto, nel cinema di Mann le storie sembrano essere scomparse. Ma non perché non contano più nulla, come fosse un altro Malick. Il fatto è che sono spariti i protagonisti, con i loro vissuti. Pare che il mondo di Mann non sia più abitato da persone in carne e ossa, da individui singoli, con i loro carichi di ricordi e aspettative, di paure e dolori, rimpianti, disillusioni e speranze tenaci. Il loro passato è stato cancellato, proprio come un sistema operativo riformattato. Riaffiora qualcosa, qua e là, tracce di memoria sopravvissute al processo, forse file irrimediabilmente corrotti. Un marito morto nell’11 settembre è solo un dato recuperato chissà da quale vecchio sistema operativo. Quel ricordo dura un batter d’occhi, il tempo di esalare un ultimo respiro, prima che si spenga la vista dell’universo in costruzione, delle forme architettoniche, solide e concrete, della terra e del cielo.

 

blackhatSiamo arrivati al paradosso: nel momento in cui tutti sembrano aver raggiunto la massima visibilità possibile, la “connessione perpetua” col mondo, la condanna all’anonimato è ineluttabile. Ogni cosa è divenuta, finalmente, fantasma. Perché l’immagine pubblica ha preso definitivamente il posto del sé privato, della realtà intima e concreta delle persone. Con tutti gli inganni che stanno dietro a quell’immagine, le costruzioni consapevoli e no, i ritocchi (digitali) e gli artifici. Ma la questione non è più solo lo scarto tra le apparenze e la realtà, visto che questa non si può dare all’infuori di quelle… è ormai un fatto. Il punto è che l’inganno dell’Io si è definitivamente svelato e dissolto. Come se le individualità si fossero scomposte in una serie confusa di pixel o in flusso indistinto di informazioni, che, sicuro, viaggiano a un certa velocità di bitrate da un capo all’altro del mondo, da un cinema all’altro, da Chicago a Hong Kong a Jakarta. Ma sempre secondo linee di trasmissioni parziali, blocchi di dati che si accumulano nel tempo. E nella grande massa di byte, c’è sempre qualche informazione che si perde, un margine di errore e inaccuratezza, un infinitesimale principio di corruzione, come una specie di entropia digitale che fa sì che, al termine di ogni passaggio, il risultato, il quadro non sia mai del tutto uguale all’originale (quanti milioni si perdono alla fine, rispetto alla stima iniziale?). L’uomo digitale si decompone esattamente come l’uomo in carne e ossa, proprio perché logorato da un lavoro infinito di scomposizione e ricomposizione delle sue singole particelle, dei suoi minimi bit. La morte 2.0.

 

Ma se non ci sono più storie, cosa abbiamo da raccontarci? Probabilmente più nulla. Dell’amore tra Hathaway e Chen Lien, in fondo, restano solo gesti che non durano più di qualche decimo di secondo, uno sfiorarsi furtivo, una mano che tocca un braccio, i capelli e l’immaginazione dell’odore che si portano dietro, dentro. Gesti che danno vita concreta e breve a purissime sensazioni, prima ancora che a sentimenti. Perché il sentimento sembra finire nell’attimo esatto in cui il dramma si consuma, in quella struggente, magnifica scena di pianto in aereo.

 

blackhatIn effetti, pur sembrando guardare a un universo lontanissimo, pur perdendosi dietro a fantasmi senza corpo, ai giochetti combinatori dell’economia informatica, pur aprendo le porte a una riflessione lucidamente teorica, Mann porta avanti un discorso sin troppo concreto, pesante, materico. Che colpisce e fa male con una potenza di fuoco quasi letale, esattamente come quei proiettili che si conficcano sui container del porto (proiettili e container, unici segni di “un’economia reale”… i colpi di pistola uccidono al di là di come noi vogliamo leggere le immagini). Perché racconta alla perfezione la nostra solitudine, la nostra impossibilità di condividere alcunché, al di fuori di tutto ciò che già mostriamo sui nostri profili social, di ciò che facciamo premendo un tasto di un computer o di uno smartphone, con un clic di macchinetta digitale. Ma, al tempo stesso, con un movimento quasi opposto, Blackhat svela quella “vocazione sciamanica” che forse è il nucleo più profondo e spiazzante di tutto il cinema di Mann (e che sembra, per assurdo, rimandare alla cultura dei nativi). Quel suo desiderio di dar forma e aggrapparsi a visioni capaci di indicare, per un istante, quel mistero elettrico che “fluttua nell’aria” e si confonde con essa. E che, magari, consiste proprio in quelle sospensioni, in quegli ineffabili detriti della decomposizione, nel segreto di quei dati che si perdono negli infiniti passaggi. E Hathaway, allora, con la sua assurda preveggenza, è proprio questo, lo sciamano, l’iniziato di un culto misterico che capta l’imponderabile. È l’ultimo nemico pubblico in cui ci è dato ormai di credere, proprio perché è ancora in grado di agire, cioè di dominare l’analogico, di tirar fuori un’arma da un cacciavite comprato al mercato. Ed è l'unico capace di “raccontare e sentire le storie”, di sfuggire all’omologazione dei flussi, rimanipolandoli alla ricerca di uno squarcio di senso nascosto, di quei pochi residui di umanità di questo tempo non più umano. Quegli scarti di processo che raccontano la morte e, tramite essa, inevitabilmente, la vita. Dobbiamo solo pensare a sopravvivere…

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