#TFF37 – Pink Wall, di Tom Cullen

L’opera prima dell’attore inglese ridefinisce il dramma sentimentale secondo una mutata prospettiva di gender. Ma a scapito della verità dei personaggi e, soprattutto, dell’emozione.

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Il Pink Wall del titolo è un muro fatto di neon in un club alla moda di Tokyo che tramuta le persone in silhouette ed è anche quello su cui va a infrangersi l’amore tra Jenna e Leon, coppia di lungo corso, lei producer di moda, lui un po’ dj, un po’ fotografo ma privo di quell’istinto killer che pare indispensabile a costruire una carriera di successo nella competitiva Londra delle arti. Un amore in vari atti il loro, raccontato per andirivieni temporali testimoni del primo incontro, dell’innamoramento, delle conoscenze carnali e quelle emotive, fino all’emergere delle prime, grandi distanze e all’immancabile fine, per “divergenze inconciliabili”, come recitano sobriamente gli atti di divorzio.
Se avete l’impressione di aver già letto e già visto tutto ciò è perché Pink Wall, opera prima dell’attore Tom Cullen, visto in Weekend e nella serie Downton Abbey, non brilla certo per originalità di plot e personaggi.
L’idea di seguire una relazione nelle sue chiavi di volta è ormai talmente abusata da risultare ammissibile solo in caso di una particolare urgenza narrativa o espressiva.
Per Cullen, probabilmente, l’urgenza nella nuova lettura di quella piccola cosa chiamata amore sta nel mutato dibattito sul gender e nelle sue ripercussioni all’interno della coppia.
Leon e Jenna allora, un po’ come le silhouette del muro rosa, diventano funzioni di qualcos’altro, di una mascolinità indebolita ma più sensibile e di una femminilità che, al contrario, accoglie in sé tratti da sempre associati a un universo virile, come l’ambizione lavorativa e il distacco emotivo.
Due rotte inverse, dapprima complementari e poi fagocitanti, destinate a logorarsi a vicenda, che il neo regista descrive con metafore e situazioni non proprio velate: dalla bottiglietta che Jenna fa mettere tra le gambe a un’amica simulando un amplesso, senza più bisogno di “maschi noiosi”, al risibile spogliarello in cui si avventura Leon al fine di risvegliare il desiderio nella sua compagna…
L’immagine da mantenere davanti alle famiglie d’origine, l’avere figli o meno, la presentazione al consesso degli amici, le gelosie per colleghi ambigui: tutto ciò che, da manuale d’uso della coppia, può essere motivo di scontro e creare fratture viene passato al vaglio dell’analitica quanto schematica scrittura di Cullen, intrisa di letture su male gaze, patriarcato e ogni altra definizione diventata Google trend negli ultimi tempi.
Forse rileggere gli schemi della rom-com e del dramma sentimentale alla luce di una mutata sensibilità è necessario, tanto che fra le opere prime e seconde del concorso TFF appare evidente l’emergere di una nuova percezione del sentire femminile, anche o forse soprattutto da parte di autori uomini, come il Marc Collin del pur esile Le choc du futur, che fa muovere la sua protagonista nell’universo quasi interamente maschile della musica elettronica sulle soglie degli anni 80.
L’esito di Pink Wall è però troppo debole: malgrado i suoi colori catchy, la macchina a mano, gli stilemi narrativi ed estetici dell’indie che più indie non si può, il film di Cullen oscilla tra il già visto e certe rubriche da settimanale americano post Me-Too.
Se la condizione per una ridefinizione delle dinamiche di genere comporta una rinuncia all’emozione, alla verità dei personaggi, delle loro storie singolari e non collettive, di errori e mancanze frutto di fragilità umane e non (solo) di archetipi culturali, bisogna chiedersi se non sia un prezzo troppo alto da pagare.
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