The Forest of Love, di Sion Sono

Sion Sono torna su Netflix con The forest of love, ispirato al serial killer Futoshi Matsunaga, pieno di pezzi pregiati e suggestioni visive, tanto eclettico da passare dal romanzo d’amore al gore

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Il potenziale onirico di Sion Sono trova nel cinema sempre un’area molto fertile per espandersi. Dopo la collaborazione con Amazon Prime Video per la miniserie Tokyo Vampire Hotel, apparsa fugacemente in Italia al TFF in anteprima, e disponibile adesso in streaming, grazie a Netflix torna adesso ai suoi loop preferiti, infarciti di cattive maniere, ignaro delle politiche di contenimento sociale e refrattario a mettersi in riga dietro regole fatte secondo la logica dei tempi, in un progetto capace di contenere molti aspetti dei suoi lavori precedenti, pienissimo di autocitazioni ed omonimie nei personaggi. Attribuire con precisione una  categoria a The forest of love risulta naturalmente impossibile: la trama prende corpo da alcuni agghiaccianti fatti di cronaca avvenuti sull’Isola di Kyushu in Giappone, e risalenti agli anni 90. Futoshi Matsunaga, truffatore ed assassino seriale di bella presenza, comincia a lasciarsi alle spalle una scia di sangue e di cadaveri, interrotta dall’arresto e la condanna a morte per impiccagione nel 2005. Torna un serial killer così come in Cold Fish, e torna un nome già sentito, Murata.

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L’efferata ondata criminale segue una lunga fase di preparazione, il film ricostruisce il retroterra della strage, gli ambienti e i personaggi prendono corpo e l’atmosfera immediatamente diventa viziata. Il peccato originale del cinema di Sion Sono nasce spesso dentro una scuola, tra le adolescenti, vittime di un contesto familiare squilibrato. Le connessioni con la trilogia dell’alienazione ed in particolare con Suicide Club sono evidenti ed esplicite, un’ossessione ricorrente già in Tag (2015), ma ancora più marcata e mimetica. È facile confondere, nel clima di corruzione generale, le fragilità e le paure dei desideri come un aspetto giustificatorio, mentre in realtà sono faglie, interstizi, debolezze, dentro una lettura amorale. Indici di una società malata fino al midollo.

Tutta la prima parte è quasi una sorta di melodramma moderno su bassa frequenza erotica, con tanto di festa di fidanzamento ed esibizione canora. L’entrata in scena del killer rubacuori viene introdotta quando ormai le vulnerabilità sono emerse e il campo è pieno di pulsioni trasgressive, tra cui un richiamo shakespeariano all’amore agognato ed impossibile per eccellenza, quello tra Romeo e Giulietta, in un revival studentesco risvegliato dal flashback. L’impianto sentimentale è solo un’altra deriva di un intreccio al solito ricchissimo.

Un altro filone narrativo viene sviluppato infatti partendo dal progetto di alcuni dei protagonisti di girare un film (qui immediato il rimando a Why Don’t You Play in Hell?), per poi confluire come affluente principale nella vicenda crime. Spogliati indifesi e umiliati i personaggi, subiscono ogni genere di tortura, fisica e psicologica, il racconto libera un volto macabro, lo schermo comincia a riempirsi letteralmente di sangue, e prende una tonalità rosso ematico degno di un film splatter/gore. La cosa impressionante da far tremare i polsi è la cattiveria immotivata, innescata da stupidi pretesti, una Violenza senza causa, titolo non casuale di un film di Kōji Wakamatsu, ben nota nel cinema nipponico, e soprattutto la crudeltà rappresentata nel suo grado sommo, con una figlia impegnata a torturare i genitori e la sorella con delle scariche elettriche, per assecondare i voleri del mostro e soddisfare un impulso sadico.

La storia rispetto alla norma di Sono è lineare, meno criptica, divaga per suggestioni dichiarate, resta una wunderkammer di immagini frenetiche, un barocco visivo generato sopra un nucleo più concreto, cosciente del rischio di vanificare l’interesse per l’indagine investigativa, tenuta in ombra, sussurrata dalla tv di un anonimo bar. Un pericolo evitato moltiplicando le diramazioni emotive e i centri di interesse, in un continuo rimando di tensione tra passato e presente. Non interessa affatto il processo di svelamento del crimine, quanto il substrato di degrado nel quale è stato consumato, plausibile, appunto, e molto spaventoso. Ugualmente sorprendente ed imprevedibile.

 

Titolo originale: id.
Regia: Sion Sono
Interpreti: Kippei Shîna, Shinnosuke Mitsushima, Kyoko Hinami, Eri Kamataki, Young Dais
Distribuzione: Netflix
Durata: Origine: Giappone, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.17 (6 voti)
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