Una claustrocinefilia, di Alessandro Aniballi

Un film da moviola, di citazioni e devastazioni, in cui Aniballi affronta le sue sindromi, in una dichiarazione d’amore e disamore per il cinema. In anteprima al Bellaria Film Festival

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Io vedo il vostro il dolore”, ci disse una volta Franco Maresco. È una storia già raccontata, ma sempre rivelatrice… “Perché scrivete intorno al nulla”, aggiunse poco dopo. E si trattava di un’affermazione che riguardava il presente, lo stato delle cose, senza offese per nessuno. Il cinema del passato era, in qualche modo, salvo, inviolabile. Quella sera, difatti, si continuò a parlare di Ford, Capra e così via. Con passione, perché quell’inviolabilità non suggellava una distanza. Anzi. Era una specie di elemento segreto in grado di preservare lo splendore, di nutrire all’infinito la forza vitale di certe immagini. Ma, al di là del rimpianto per l’epoca d’oro, era bastato quel “vedo il vostro dolore” a mostrare, in un istante, l’entità della malattia che sentivamo di avere. E che si traduceva nella confusa sensazione di girare intorno a un buco nero.

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Chissà che non sia un po’ la stessa malattia di Alessandro Aniballi, che, al suo primo lungometraggio in solitaria, cerca di fare il punto sulle sue sindromi. A cominciare dal sentimento di distacco nei confronti dell’attività critica e, in particolare, della scrittura. Alessandro è tra i fondatori della rivista Quinlan e, da anni, un nome più che noto nell’ambiente. A un certo punto, racconta, tutto ciò ha cominciato ad andargli stretto. Crisi del critico. Sintomo evidente di una claustrocinefilia, in cui, certo, si mescolano ansie da virus e pandemia, ma che è una delle conseguenze della clausura soffocante di questa cosa che chiamiamo cinema. Eppure non si tratta esattamente della stessa “patologia di Benicious”, nonostante Aniballi, all’inizio del film, si veda riflesso nella bizzarra figura di questo cinefilo degli anni ’80, che trascorreva la sua esistenza nomade elemosinando accrediti e ospitalità dai festival in giro per l’Europa. No. Almeno a sentire la definizione di Giovanni Spagnoletti, che rievoca il profilo di un divoratore incallito di film, ma incapace di trarre alcun nutrimento dal flusso ininterrotto delle sue visioni.

Viene in mente il mangiatore di film di cui parlava, meravigliosamente, Enzo Ungari: “un personaggio tragico, inaccessibile, forse antisociale”. Che non è il critico. Al contrario: “ai suoi occhi i critici sono macchiati dal peggiore dei vizi, quello di aver fatto del cinema una professione disincantata”. Il mangiatore, invece, “è spaventosamente romantico, irrimediabilmente portato cioè a capire la realtà”. Ecco l’elemento essenziale di differenza. Per quanto il vizio privato possa sfociare nell’ossessione più alienante, il presupposto è che il cinema non sia una pura e semplice bolla, staccata dalle cose. Sebbene a un occhio pigro possano sembrare dimensioni inconciliabili.

E perciò arriva, spesso, il momento in cui la passione, dopo aver rischiato di trasformarsi in un’ossessione totalizzante, incontra il disincanto. Il rifiuto addirittura. È il momento in cui i film non bastano più e il resto invade il campo, con tutto il suo peso. Magari per esigenze concrete, materiali (il pane!) o perché, più a fondo, si comincia a indagare il significato intimo di quella passione. Ed è proprio allora che viene da fare a pezzi l’oggetto del proprio amore. Come ci dicevamo anni fa, quando il cinema ci faceva sempre più schifo. Forse è questo passaggio devastante ciò che racconta Aniballi. Che, difatti, fa letteralmente a pezzi il cinema, le immagini più amate, pensate, desiderate. “Stupra” i film, li smembra frame dopo frame, al tavolo d’autopsia della moviola. E rimescola i pezzi, li ricuce come in un delirio frankensteiniano. Li fa dialogare, secondo il senso, le forme, o il mistero di una traccia personale, con altri amori e suggestioni, dalla musica alla pittura, dalla politica alla storia. Dai gatti a Gramsci, da Welles a Dylan. Ma soprattutto con i ricordi, con tutto un vissuto sedimentato, precipitato sul fondo. Per provare a scoprire qualcosa di più su di sé.

Che sia la memoria la prova della realtà? Già, la realtà. Ma cos’è? Nel chiederselo, si potrebbe rimanere preda di qualche demone. Come Tolstoj, citato verso la fine del film, che tutto preso dalla concezione soggettiva della realtà, sfidava sé stesso a scoprire, voltandosi all’improvviso, quell’istante mimino in cui il mondo non aveva ancora preso forma. “Vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco”. Il nulla. È questa l’angoscia fondamentale del film, in tutta le sue declinazioni. L’inutile, il vuoto, fino ovviamente alla morte. Di fronte a quest’angoscia, per Aniballi la reazione più immediata, forse anche ovvia, è rifugiarsi nella persistenza delle immagini simulacro. Immagini quasi per necessità “passate”, monumentali. Storia del cinema (o storie del cinema, Godard è onnipresente). È indicativo che tra i tanti titoli citati in Una claustrocinefilia, pochissimi appartengano agli ultimi due decenni. Si conteranno sulle dita di una mano. E qua torniamo all’inizio, al disamore di Maresco per le immagini di oggi, il rimpianto di un tempo mitico del cinema. In cui si avverte, ovviamente, anche l’eco di Pasolini, con tutte le sue implicazioni e declinazioni. “Io sono una forza del passato”… E quindi, guarda un po’, ancora Welles, di nuovo la morte di Kane, del vecchio colonnello de L’orgoglio degli Amberson. Di nuovo Quinlan.

Ma al di là di quest’inclinazione archeologica o mitologica, preferiamo pensare che Pasolini e Welles funzionino come esempi di cinema barbaro, come due invasori che devastano i confini dell’impero. Perché, in effetti, c’è un che di magnificamente barbaro nei tagli di montaggio e nelle immagini di Aniballi. Un senso di caos, di squilibrio vitale che sa di trasformazione permanente. E soprattutto di disponibilità al gioco, di libertà autoironica, nonostante le angosce, le paure, le incertezze. Che sia questa una possibile risposta alla crisi?

Mangiare i film, adesso che si limita a guardarli e a scriverne, gli appare un vizio lontano, una perversione esaurita. E finalmente, comincia ad amare il cinema”.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
1.5 (2 voti)

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