Una película de polícias, di Alonso Ruizpalacios
Tutto giocato sulla linea di confine tra il reale e la finzione, il film (targato Netflix) attraversa le mille forme dell’epoca streaming. Orso d’argento per il montaggio alla Berlinale 71
Teresa e Montoya sono due agenti della polizia di Città del Messico. Hanno seguito una vocazione di famiglia: lei aveva il padre poliziotto, lui il fratello. Sono una coppia nella vita e attraversano insieme le strade inquiete della capitale, tanto da essere soprannominati “la pattuglia dell’amore”. Parlano, si raccontano, ricordano, si confessano, molto spesso guardando in macchina… come se fossero i casi di studio di un lungo reportage sulle forze dell’ordine messicane, con le testimonianze che si sovrappongono e si mescolano all’azione, cioè a quanto ti aspetteresti di vedere in un poliziesco. Una retata, una sparatoria in un vicolo, un inseguimento. Un documentario sul campo, potrebbe sembrare. Ma qual è la definizione giusta dell’immagine? E, infatti, a un certo punto, un rovesciamento scompagina le carte. La produzione si palesa e riafferma il suo dominio assoluto sulla verità. Ma è davvero uno spiazzamento? Abbiamo mai creduto, anche solo per un istante? Fatto sta che, tratto il dado, Ruizpalacios trasforma il film in un resoconto da “infiltrati” dei due attori protagonisti, Mónica Del Carmen e Raúl Briones, che entrano in polizia per replicare la storia reale di Teresa e Montoya. Ed ecco forse, magari, il “vero” doc, con le immagini rubate dei cellulari che si sostituiscono alle scene iperprodotte dell’inizio. Il training attoriale che si confonde con l’addestramento delle reclute. Fino a un’ultima sovrapposizione che è una definitiva riappropriazione.
Insomma, Ruizpalacios gioca sull’eterna linea di confine tra il reale e la finzione, per rimarcare la relatività delle forme e delle prospettive. E, come già accadeva in Museo, si muove tra le implicazioni teoriche del cinema e la sua capacità di farsi illuminazione, tra l’attrazione dello spettacolo e lo svelamento (maya) dell’illusione, tra le modalità della rappresentazione e gli stereotipi della narrazione. Ma nel film precedente tutto appariva più fluido, naturale, come una specie di moto ondoso regolare che si distendeva nella deriva on the road dei rapinatori. Qui il movimento di andate e ritorni, questo continuo dentro e fuori la parte, ha qualcosa di troppo meccanico, studiato, pianificato, per essere davvero spiazzante. In qualche modo, tutto il sistema formale, sapientemente tarato sulle mille estetiche possibili dell’epoca dello streaming (il film è targato Netflix), finisce per esaurire le ragioni stesse del film. Che, d’altro canto, vorrebbe essere uno sguardo politico su un sistema di corruzione generalizzato, su una polizia costretta nell’ambiguità dall’interesse particolare, dalla diffidenza della gente “comune”, dall’arroganza del potere e dall’ipocrisia istituzionale. Alla fine, su questo punto, Ruizpalacios sembra rinunciare all’articolazione di qualsiasi tipo di discorso, si astiene da ogni intervento. E così, in maniera forse anche coerente, si limita a registrare e “documentare”.