"Vecchie", di Daniele Segre

E' un universo lontano il cinema di Segre, chiuso ad ogni tipo di influenza esterna, muto in un isolazionismo di forme che avrebbero l'intenzione di riprodursi automaticamente quali datrici di senso, mentre affogano in un delirio incomprensibile racchiuso nelle quattro mura di un set senza uscite.

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Soffre di una strana allergia al movimento il cinema di Segre, e in particolar modo questa sua opera presentata al Festival di Venezia del 2002. Due donne di una certa età parlano all'interno di un appartamento in camicia da notte, sembrano destinate ad uscire prima o poi, ma il loro dialogo va avanti, lungo, interminabile, scandito da riflessi automatici instancabili. La stanza di una casa come set dell'opera, il teatro quale referente principale, e il dialogo quale vero principio regolatore dell'innesto cinematografico. Due corpi quindi, e la frontalità spietata di un meccanismo di ripresa che passa con disinvoltura dal naturalismo dell'inizio, a forme di distanziamento brechtiano che colpiscono l'occhio nella seconda.

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E' un universo lontano il suo cinema, chiuso ad ogni tipo di influenza esterna, muto in un isolazionismo di forme che avrebbero l'intenzione di riprodursi automaticamente quali datrici di senso, mentre affogano in un delirio incomprensibile racchiuso nelle quattro mura di un set senza uscite. I due corpi a confronto, impegnati un tour de force dialettico notevole, non producono mai vera emozione, sembrano/sono zombie della durata, chiusi in gabbie spaziali che ne inibiscono i movimenti, occludendo in questo modo ogni potenziale capacità espressiva. Segre viene dal documentario, è chiaramente abituato ad imprigionare lo spessore materico dell'inquadratura in spazi sempre più ristretti, e quindi a dare per scontati corpi, inflessioni, emozioni. In Vecchie arriva a sfruttare i corpi delle due (bravissime) attrici, immobilizzando la scena e lasciandosi andare stancamente al rapsodico scorrere della parola, non aggiungendo mai un movimento sano e reale al succedersi dei piani scritti. Ci troviamo evidentemente all'interno di una forma espressiva incerta (divisa appunto tra documentario, finzione e teatro), racchiusa in volute pseudo-sperimentali in cui di mezzo però ci sono sentimenti che si vorrebbero reali ed umani quali la vecchiaia, l'amicizia, l'amore. Si tratta però di espedienti funzionali ad una riflessione che forse mira addirittura al Beckett di Aspettando Godot (il continuo rinvio dell'uscita, ri-perpetuato stancamente in cicaleccio infinito), senza però provare nemmeno un istante a fare davvero i conti con il cinema. Stando poi al discorso sul teatro impossibile, la frontalità di Segre non è certo quella tutta politica e spietata di Straub/Huillet e non arriva nemmeno agli interessanti scivolamenti avanti e indietro nel tempo del Russo di Fondali notturni, ma si arrende all'azzeramento della forma visiva, dando per scontato che il lavoro approfondito sul testo (sotto forma di dialoghi che non lambiscono mai davvero la superficie ovattata della scena) farà anche tutto il resto. Ma non è così.


Regia: Daniele Segre
Soggetto: Daniele Segre
Sceneggiatura: Daniele Segre, Maria Grazia Grassini, Barbara Valmorin
Fotografia: Paolo Ferrari
Montaggio: Daniele Segre
Suono: Maricetta Lombado
Scenografia: Daniele Segre
Costumi: Daniele Segre
Interpreti: Maria Grazia Grassini (Letizia), Barbara Valmorin (Barbara)
Produzione: Gianluca Arcopinto per Pablo, Daniele Segre per I Cammelli
Distribuzione: Pablo
Durata: 83'
Origine: Italia, 2002

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