VENEZIA 59 – Angeli sopra Malmoe: "Lilja 4-Ever", di Lukas Moodyssonn

Parte con le asperità sonore dei Rammstein la “nuova Mostra” dehadelniana, in un film sul disagio giovanile pericolosamente indeciso tra uno sguardo sul reale assolutamente convenzionale e un finale folle che sembra quasi contraddirne lo “statuto d'autore” di partenza, rovesciandone il senso e le linearità emozionali.

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Eccoci dunque nel "nuovo Festival", quello che un po' tutti gli addetti ai lavori osservano con sospetto e perplessità, la Mostra incautamente "scippata" dai giochi della politica dalle abili ed esperte mani diAlbertoBarbera, per passarla in quelle altrettanto esperte (ma anche altrettanto abili?) di Moritz De Hadeln. L'impressione è che nei confronti del neo-direttore ci sia una sorta di benevola diffidenza, come se la Mostra del 2002 fosse un salto nel vuoto, un momento di passaggio tra il Festival di Barbera (e di tutto l'apparato culturale della sinistra che lo ha sostenuto) e il vero nuovo Festival della Destra, che forse  ci sarà il prossimo anno dretto da chissà chi, se De Hadeln non sarà all'altezza dell'ingrato compito, e soprattutto se gli apparati neogovernativi sapranno tirar fuori quadri politico culturali all'altezza del compito.  Nel frattempo, mentre la Mostra resta stritolata dalle logiche politiche meravigliose dell'alternanza all'italiana (ovvero quando si cambia governo si cambian tutte le singole istituzioni), il "povero" De Hadeln si ritrova quest'ingombrante gatta da pelare, e in pochi mesi e con pochi mezzi ha messo su una Mostra che, a un primo sguardo, non appare poi tanto lontata dalle precedenti, almeno nella sua struttura essenziale (altro è il cinema che si è scelto di promuovere…). Due concorsi, uno principale un altro più "libero", retrospettive e una sezione per ilcinema "alternativo" e/o sperimentale, i "Nuovi Territori".

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E per chi si aspettava una partenza "in sordina" della umile Mostra Dehadelniana, ecco invece che il Festival ha aperto i battenti, per il secondo concorso, "Controcorrente", con la musica dei Rammstein sparata a tutto volume, quasi a voler squarciare almeno le orecchie degli spettatori, dove le immagini – per incapacità o pregiudizio – non riescono ad arrivare. Lilia 4-Ever di Lukas Moodyson (quello di Fucking Amal) ci scaraventa sin dall'inizio in un incubo straziante, con la macchina a mano che insegue la corsa disperata della giovanissima Lilia (Oksana Akinshina) lungo le strade di una periferia svedese, percorse come fossero dei luoghi oscuri di perdizione e smarrimento. E infatti il film dopo quest'inizio "esplosivo", con un lungo flashback ci ricaccia dentro la spirale della vita della ragazza, un teenager qualunque in uno qualunque dei paesi dell'ex Unione Sovietica. Lilia ha 16 anni e la madre ha deciso di trasferirsi in America con il nuovo compagno, e lei è felicissima ma ancora non sa che invece la madre ha deciso di partire senza di lei. Ecco che Moodysson, che ha come una specie di venerazione per l'universo giovanile che osserva con una vicinanza e passione rara, ci racconta da vicinissimo la vita disperata di questa ragazza sola, alle prese con la dura realtà della sopravvivenza quotidiana, e con  suo unico vero amico un ragazzino di 11 anni di nome Volodia, con il quale stabilisce una relazione fatta di una complicità quotidiana. Lilia cerca di sopravvivere e sogna una vita diversa, ma il mondo sembra stargli stretto e quando conosce un ragazzo che vuole portarla con lui in Svezia, finalmente sembra che i suoi desideri si avverino, ma la realtà si dimostrerà assai più nera e terribile delle sue aspettative.


Lilia 4-Ever dopo quell'inizio sconcertante e acusticamente devastante, si abbandona lentamente in territori più confortevoli per lo sguardo, con una narrazione fatta di continui momenti topici prevedibili (l'abbandono della madre, la corsa dietro l'auto di Lilia che cade nel fango, la foto della madre strappata, le violenze di gruppo su di lei) uniti a dei frammenti di quotidianità vissuta ai  margini del mondo con il piccolo Volodia , che la adora e seguirebbe dovunque, che danno alla storia un sapore aspro e allo stesso tempo dolce, come se la tenerezza si nascondesse necessariamente nelle pieghe di una vita necessariamente da rappresentare come "già vista", quasi come una serialità d'autore…. E mentre Moodyson prosegue il suo cinema che indaga acutamente sul moderno disagio giovanile, con uno sguardo però assolutamente incapace di produrre alcuna nuova emozione o brivido e passione, ad un certo punto la metafora gli prende la mano, trasforma in sottotraccia narrativa il quadro dell'angelo con bambino che Lilia si porta sempre appresso di casa in casa, fa morire il piccolo Volodia che si trasforma in un angelo "custode" della ragazza, e, in un delirio forsennato, ci regala alla fine un folle e irresistibile finale con i  due ragazzi trasformati in angeli che ballano gioiosamente sui tetti della città. E' un finale inaspettato, forse insopportabile, forse accattivante, ma finalmente fuori da un cinema d'autore condizionato da uno sguardo preconfezionato, quasi "libero" nel suo grido di silenzio disperato.


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