VENEZIA 63 – "Lettere dal Sahara" di Vittorio De Seta (Fuori concorso – Evento Speciale)

Il regista palermitano torna alla ribalta dopo un'assenza di tredici anni. Un evento speciale per tutti i suoi estimatori. Ma, purtroppo, anche una delusione. "Lettere dal Sahara" tratta il tema dell'emigrazione in maniera prevedibile e semplicistica. Come un tema scolastico, pulito, corretto, ma senza spessore

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E' indubbiamente un gradito ritorno quello di Vittorio De Seta. Un evento speciale per chi ha amato il suo passato di documentarista e cineasta rigoroso. Ancor più se si considera che da tredici anni, dopo il documentario per la TV In Calabria, il regista palermitano non ha avuto la possibilità di girare nient'altro. Lettere dal Sahara è un progetto a lungo coltivato, portato avanti con mille difficoltà, tra Italia e Senegal. E sta a testimoniare la volontà e l'entusiasmo, senz'altro sinceri, di un uomo ormai ottantenne, sempre pronto a confrontarsi con i problemi scottanti di una realtà in rapida trasformazione. Come l'immigrazione, ad esempio. "Carestie, calamità naturali, guerre, spingono decine di persone ad abbandonare i paesi d'origine, ad attraversare mari e deserti per trovare condizioni di vita migliori. Una somma infinita di sacrifici, umiliazioni, solitudine e dolore".  Una scritta posta in epigrafe, che apre la strada alle avventure di Assane (Djibril Kébé), giovane senegalese che interrompe gli studi per emigrare in Italia. Una speranza che si trasforma ben presto in una "passione". Dal naufragio allo sbarco a Lampedusa, da Napoli su fino a Torino, una viaggio tra lavoro nero e discriminazione, solitudine e solidarietà, precarietà e disadattamento. Alla fine Assane, sconvolto da un grave incidente, decide di tornare a casa. Ma la crisi sembra non finire. Come se le radici fossero state ormai estirpate per sempre. Una materia dalle potenzialità altamente drammatiche, che, però, facilmente si presta a generalizzazioni e semplificazioni. E, purtroppo, va detto che De Seta non sfugge al rischio. Il problema fondamentale di Lettere dal Sahara è che si presenta come un'antologia di luoghi comuni, non riesce a tirarsi fuori dal pantano del già detto e già sentito. Sino a sfiorare una pesantezza retorica nel finale. Non manca nulla: dal giovane immigrato sensibile ai conflitti tra Occidente e Islam, dal razzismo strisciante alla buona disposizione dei giovani volontari, dalla malavita alle difficoltà burocratiche, dalla vitalità africana ai disagi dei rapporti nelle società "avanzate". Il tutto accostato ordinatamente, come in un facile tema scolastico, pulito, corretto, pieno di buoni sentimenti e migliori intenzioni, ma senza spessore. E per di più servito da una regia piatta e convenzionale, da reportage giornalistico convenzionale. Dispiace. Davvero. Perché qua e là s'intravedono lampi dell'abilità di De Seta: nella concretezza "infernale" del lavoro in una fonderia o nel ritmo ancestrale di un ballo tribale. Uno sguardo politico e antropologico mai domo. Ma lontano dalla lucidità del passato.

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