Trasposizione dell’Esodo biblico in futuro imprecisato, il film risponde all’esigenza di raccontare i drammi della contemporaneità. Ma l’ambizione di leggere l’oggi non permette alla regista di adeguare lo sguardo alla dimensione metaforica del racconto. La Woolcock forse non crede nella capacità della storia di raccontarsi da sé e punta all’eccesso, senza averne la forza visionaria
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Pone parecchi interrogativi Exodus, il film inglese della regista Penny Woolcock. L’intuizione di partenza è giusta: se la Bibbia è un insieme di miti e racconti che affondano le loro radici nell’immaginario di un popolo, allora le sue storie sono chiavi di lettura della vita e della realtà valide sempre, esportabili e adattabili alla contemporaneità. In questo senso la vicenda dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto può essere perfetta per raccontare il razzismo e l’attuale senso di sradicamento degli immigrati, dei popoli in fuga dalle guerre e dalla povertà. La Woolcock, anche autrice della sceneggiatura, non fa che rileggere la storia di Mosè, collocandola a Margate, città balneare dell’Inghilterra ormai in decadenza, in un futuro imprecisato, sconvolto dalle guerre e dai conflitti di classe e razza. Un mondo tiranneggiato da un gruppo dominante composto da uomini bianchi e ricchi, votati allo sterminio sistematico delle altre etnie, dei poveri e diseredati. Moses è, secondo la tradizione biblica, un giovane “salvato dalle acque” e adottato dalla moglie di Pharoah, il leader del partito dominante. Innamorato di una ragazza di colore, Moses si reca a Dreamland, una sorta di ghetto-campo di concentramento, un luna park abbandonato in cui vengono rinchiusi tutte le minoranze etniche e i piccoli criminali. Resosi colpevole dell’omicidio di una guardia, Moses è costretto a nascondersi a Dreamland, conosce la sua vera famiglia e si pone a capo della rivolta degli oppressi contro il padre adottivo Pharoah. Ogni cosa, personaggi, nomi, situazioni, rimanda al modello di riferimento con una fedeltà sin troppo ricercata. Quello che cambia è la declinazione al presente (o al futuro). Le celebri piaghe d’Egitto diventano così virus informatici e attentati terroristici e il mondo descritto, nel suo caos di violenze e miserie, assomiglia a quello de I figli degli uomini. Ma il film di Cuaron riesce in qualche modo a dar forma a un mondo da incubo e a personaggi memorabili, grazie ai virtuosismi dello stile, ai ritmi serrati, a una stanca, ma mai rassegnata, tristezza di fondo nei colori e nei toni. La Woolcock, invece, nella sua ambizione di leggere l’oggi, non riesce ad adeguare lo sguardo alla dimensione metaforica del racconto. O viceversa. La visione è come appesantita dal contrasto tra il dimesso, sporco iperrealismo della fotografia e degli ambienti e la volontà di tradurre il mito in simboli che siano chiaramente leggibili ai contemporanei. La Woolcock probabilmente non ha fiducia nella capacità delle grandi storie di raccontarsi da sé, ha bisogno di rendere manifesti i segni sotterranei (le voci che assillano Pharaoh) e dello scarto fantastico (il volo di Moses, il ritorno finale all’embrione). Punta all’eccesso, ma manca di quello sguardo visionario, capace di farci apparire agli occhi i nostri idoli e i nostri mostri.
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