VENEZIA 66 – "Gulaal" di Anurag Kashyap (Fuori Concorso)
Violento e intricato dramma elisabettian-bollywoodiano, che senza bisogno di fare nomi e cognomi mira a uno dei punti più incandescenti dell’India contemporanea: il separatismo fascistoide che domina molte realtà locali e che è molto più e molto peggio di una sacca di reazione alla vertiginosa modernizzazione della nazione
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Non è la Bollywood che ci si aspetterebbe. Eppure, l’impronta di superficie è inconfondibilmente bollywoodiana: periodiche incursioni cantate e ballate che punteggiano il racconto, mix di generi “molecolare” (commedia compresa, a dosi massicce) attivo a livello tanto micro- quanto macrostrutturale, spettacolarità esasperata e quant’altro. Non è comunque difficile riconoscere come e perché Gulaal si discosta da questo riferimento irrinunciabile: le incursioni canore ne sono un bell’esempio, con la loro tensione di sguardi e di allusioni che ne fanno meno una pausa vitale della narrazione che un’iniezione di testosterone ultranarrativo. Per non parlare dei toni cupi e cavernosi che affiorano qua e là.
Meno che mai, però, Gulaal sarebbe una generica tirata contro un potere astrattamente rifiutato in quanto macchina impersonale e mietitrice di vite che mette tutto contro tutti e distrugge tutto. Se è vero che il film dice questo, è anche vero che, senza alcun bisogno di fare nomi e cognomi, mira drittissimo a uno dei più scoperti nervi dell’India contemporanea: il separatismo fascistoide che domina molte realtà locali e che è molto più e molto peggio di una sacca di reazione alla vertiginosa modernizzazione della nazione. Gulaal sembra dire che dietro le belle parole dei leader autonomisti (quelle che occupano il lungo incipit e che tornano periodicamente in seguito, sempre guardando lo spettatore negli occhi) c’è un gioco ferocemente impersonale che non risparmia nessuno: la politica, che si vorrebbe non ci fosse, ma c’è, e ci ammazza tutti. Anche questo è dramma elisabettiano, e anche questo è Bollywood.