VENEZIA 68 – "Il villaggio di cartone", di Ermanno Olmi (Fuori Concorso)


Non c’è più un posto per il cinema di Ermanno Olmi. Non ci sono più alberi degli zoccoli o mestieri delle armi da filmare. Non ci sono più campi aperti da illuminare o mari da solcare. La vita, le cose e il cinema: tutto confinato in una chiesa vuota dal forte sapore bergmaniano che soffoca ogni apertura dello sguardo e (di)segna la sua personale e sincera Apocalisse

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Il villaggio di cartone

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Non c’è più un posto per il cinema di Ermanno Olmi. Non ci sono più alberi degli zoccoli o mestieri delle armi da filmare. Non ci sono più campi aperti da illuminare o mari da solcare. La vita, le cose e il cinema: tutto confinato in una chiesa vuota dal forte sapore bergmaniano che soffoca ogni apertura dello sguardo. E l'alter ego Michael Lonsdale, prete ormai alla fine della sua missione terrena, divorato dai dubbi sulla fede e sul senso dell’amore terreno, si rivolge qui per l’ultima volta ad una sala tristemente vuota: suggestioni che da Luci d’inverno del maestro svedese portano per associazione istantanea sino all’apocalisse secondo lo Tsai Ming Lian di Good Bye Dragon Inn. E questo Il villaggio di cartone è, senza ombra di dubbio, il film dell’Apocalisse per  Ermanno Olmi. Un dentro l’inquadratura ormai totalmente asciugato da ogni azione/movimento e un fuori campo che non c’è più, che non può essere più percepito attraverso finestre o porte che si aprono solo sulla foschia del nulla. Gli unici sopravvissuti sembrano essere pochi derelitti migranti africani che fanno improvvisamente capolino nella chiesa ormai chiusa e che incontrano gli spiragli di solidarietà di un prete convinto ormai che “il bene sia più importante anche della fede stessa”. Ecco che il discorso personalissimo di Olmi sul suo rapporto con il cattolicesimo (già portato al punto limite col precedente Centochiodi, che però contemplava ancora uno spazio e un tempo certo per la riflessione) si chiude qui con la presa di coscienza di una fine, di una ricerca probabilmente rimasta irrisolta, di un’umanità ormai totalmente priv(at)a di sbocchi e prospettive. Il cinema in tutto questo rimane pura forma: echi (post)felliniani frenati da un rigore morale dell’inquadratura che ricorda il primo Bresson; oggetti, volti e gesti intasati da un perenne simbolismo che li soffoca e li pietrifica. L’Apocalisse per Ermanno Olmi appunto: un (non) luogo filmato da un pianeta lontano lontano, popolato da simboli che non riescono proprio più ad esercitare la loro funzione originaria (la ricerca disperata dell’umanità di Cristo marca una forte volontà di andare Oltre il simbolo della croce) e accerchiato dalla morte incombente incarnata da una fantomatica Legge. Il villaggio di cartone è pertanto un film ingiudicabile se non da una prospettiva allargata all'intera gloriosa carriera di un regista che ha sempre fatto della sincerità disarmante della sua messa in scena una cifra stilistico-autoriale riconoscibile e coerentissima. Andando oltre ogni ingenuità narrativa o estetica, oltre un approccio al cinema evidentemente retrò e oltre quelle immagini/set così spudoratamente "costruite", si può avvertire la sconvolgente sincerità un anziano artista che cerca ancora umilmente il suo posto nel mondo.

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