VENEZIA 68 – " O Girimunho" di Helvécio Marins Jr e Clarissa Campolina (Orizzonti)

O GirimunhoLa visione di O Girimunho sembra porci sulla soglia di un mistero che le immagini non possono mostrare, ma tutt’al più evocare. Non si tratta però di un’attesa: la vita non smette mai di scorrere. Sta a noi entrarvi in sintonia, abbandonandoci ai ritmi e ai suoni di un mondo rallentato ed arcaico

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O Girimunho

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Bastù è una donna di ottantadue anni che ha appena perso il marito. Non versa lacrime, ma – sebbene continui a sentirne la presenza che infesta la sua vecchia officina – seguita a condurre la sua vita semplice e affettuosa in compagnia della nipote. A fianco a lei c’è la coetanea Maria, che trasmette la sua passione per la musica e per il canto al suo paziente nipote.

Il mondo di O Girimunho è praticamente tutto qui. Siamo in un remoto paesino brasiliano, una realtà arcaica e rarefatta che, se non fosse per qualche scena notturna di festa in cui partecipano anche gli altri paesani, sembrerebbe abitato solo dai protagonisti. Chi è vicino al termine della vita, chi invece vi si affaccia, come la giovane nipote Branca che sta per andare a studiare in una città più grande. Inquadrando queste due generazioni lontane, il film sembra abitare una regione liminare, ai bordi della vita adulta. L’età di mezzo è il grande rimosso del racconto, che riemerge curiosamente in un paio di scene in cui appare una coppia non ben identificata. Eppure è la stessa Bastù ad ammonirci che non esiste vecchio o giovane, esiste solo la vita che scorre.

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Possiamo allora intendere il mondo di Bastù e Branca come una specie di osservatorio privilegiato per individuare il “mulinello” (questa la traduzione approssimativa del titolo) dell’incessante fluire vitale. I registi sono evidentemente fiduciosi di coglierlo abbandonandosi ai ritmi naturali dell’ambiente, lasciando decantare lo sguardo in lunghe inquadrature fisse. Il loro stile, apparentemente trasandato e documentaristico, è in realtà fatto di composizioni precise e studiate. I due autori brasiliani, Helvécio Marins Jr e Clarissa Campolina, sfruttano in questo primo lungometraggio narrativo l’esperienza maturata sia nel mondo delle arti visive, sia in quello del documentario (le storie dei personaggi sono ispirate a quelle vere dei loro omonimi interpreti).

Il loro è un metodo rigoroso, ma forse fin troppo deliberato. Più facile allora abbandonarsi al suono che alle immagini, cercare nelle voice over e nella musica la chiave di accesso a una realtà sospesa e misteriosa. Nei testi delle canzoni più che in ogni altra momento, convivono lo stupore infantile e l’ironia smaliziata di un tempo eternamente presente.

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