VENEZIA 68 – “O Le Tulafale” (The orator), di Tusi Tamasese (Orizzonti)

O Le Tulefale
Tusi Tamasese scrive e dirige un film che pur attingendo alla propria tradizione culturale, affronta e mette in scena sentimenti universalmente condivisi. Lontano da qualsiasi fascinazione esotica. O Le Tulafale, prescinde dalla bellezza dei luoghi e il loro occasionale emergere non costituisce mai materia centrale del suo sviluppo. Un cinema degli antipodi, che stempera ogni presunto esotismo nella riconoscibilità generale dei suoi temi

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O Le TulefaleDagli antipodi approda alla Mostra del Cinema il film del samoano Tusi Tamasese. Serpeggia una istintiva curiosità e noi stessi ne siamo coinvolti, per essere, a nostra memoria, il primo film samoano del Festival.

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Il suo autore, diplomatosi in scienze sociali all’università di Wellington, ha frequentato la New Zealand Film School. O Le Tulafale è il suo esordio nel lungometraggio, dopo le prove generali con il corto Va Tapuia che, in qualche misura, ha costituito la prova generale per questo film.

Nonostante la sua esotica provenienza il film di Tamasese mette in scena emozioni e sentimenti universali.

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Saili, il protagonista è afflitto da nanismo, ma questo non gli impedisce di difendere la propria famiglia e la sua terra. Quando la moglie Vaaiga morirà, la sua vita continuerà con la figlia e con il nipote che nel frattempo sarà nato.

Il regista samoano attinge alla propria tradizione culturale, per raccontare la storia di questo suo personaggio così caparbio nella difesa del proprio avere: terra e famiglia. Lontano da qualsiasi fascinazione esotica, la messa in scena prescinde dalla bellezza de luoghi e il loro occasionale emergere non costituisce mai materia centrale del film, teso, invece, a raccontare la vicenda umana del suo protagonista. Non vi è dubbio che egli vive in un mondo che gli è ostile, anche Vaaiga, la sua donna, ha interrotto ogni legame con la propria famiglia d’origine e l’inutile riconciliazione avverrà dopo la sua morte, ma lo stesso non accadrà con Saili che continuerà a vivere esiliato lontano da villaggio.

La tenerezza, la semplicità e l’amore, questi, secondo le dichiarazioni del suo autore, che ha scritto anche la sceneggiatura, i temi cardine del film. Su queste coordinate si svolge il film in cui la fissità dell’immagine, che diventa criterio narrativo, sembra sospendere il tempo dentro la sua stessa rappresentazione.

Una riflessione a parte va fatta sul protagonista Saili. La sua figura condensa quel miscuglio di coraggio e paura, di determinazione e incertezza che nel suo caso deriva dalla evidente limitazione fisica, ma che diventa, anche nelle intenzioni dell’autore, metafora del nostro quotidiano. Il nanismo di Saili è il nostro che ci fa comprendere di quanto siano limitati i nostri mezzi. È la volontà a consentire a Saili di superare le avversità e corrisponde a quella che quotidianamente ciascuno di noi utilizza con lo stesso scopo.

In questa riconoscibile universalità di temi il film di Tumasese si illumina di una luce propria, costituendo una riflessione originale e unanimemente accettabile. Il rifugio, davanti a questo giornaliero conflitto, è la tenerezza e l’amore, i temi dai quali si è partiti. Saili li riscopre e li pratica nell’eterno andare e tornare, nell’eterno scontro che costituisce ragione di sopravvivenza che diviene rappresentazione universale della condizione umana. 

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