VENEZIA 70 – "La vida despuès", di David Pablos (Orizzonti)

 La vida despuès
La vida despuès, a primo impatto, può sembrare l’ennesimo ritratto di una famiglia disfunzionale, il ripetitivo studio su legami genitoriali irrecuperabili e incrinati. Attraverso un soggetto ovvio, però, David Pablos ha l'encomiabile coraggio di deviare dalla prevedbilità consolatoria. con tre protagonisti schiacciati dal proprio egoismo e destinati a non trovare alcuna redenzione.  

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La vida despuèsLa vida despuès, a primo impatto, può sembrare l’ennesimo ritratto di una famiglia disfunzionale, il ripetitivo studio su legami genitoriali irrecuperabili e incrinati. Abbiamo infatti, ancora una volta, un genitore (Silvia, madre depressa) che abdica al proprio ruolo di guida e due figli (Rodrigo e Samuele, fratelli dai caratteri opposti) costretti a mettersi in viaggio per ritrovarlo e ritrovarsi. Attraverso un soggetto ovvio, David Pablos ha però l'encomiabile coraggio di deviare dalla prevedbilità consolatoria.

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I suoi protagonisti sono tre figure ai limiti, schiacciati dal proprio egoismo e incapaci di fare la scelta giusta. Soprattutto il primogenito Rodrigo, interpretato dal giovane Rodrigo Azuela, sempre con il ghigno e lo sguardo sadico, è un personaggio (e un uomo) per il quale è impossibile provare alcuna empatia. Si parte quindi da questi personaggi, volutamente vuoti, per arrivare al racconto della morte di una famiglia, di rapporti spezzati. I due fratelli, persi in un Messico disperato e sporco solo accennato da qualche sfumata pennellata sullo sfondo, alla fine del viaggio non avranno alcuna epifania e la loro iniziazione si risolverà nella fine violenta del loro mondo.

Pablos, abbiamo detto, ha la forza di intraprendere la strada della durezza e di portarla fino in fondo, senza nessuna concessione. Proprio l'epilogo, con l'annichilimento di tutti i rapporti, è l'ultima dimostrazione, quasi determinista, che nel suo universo, nel suo Messico, non c'è spazio per la redenzione. Questa scelta narrativa radicale, però, non è accompagnata da una ricerca visiva degna di nota. E’ vero che per una volta, come capita ormai con tutti i registi privi di una vera idea di cinema, ci viene risparmiato lo sguardo naturalista, lo sproloquio visivo indulgente alla Malick, ma ciò non è compensato da alcuna intuizione personale. Sembra quasi che il regista si limiti a posizionare la cinepresa e a lasciarla girare, come se fosse impossibilitato, o forse incapace, di intervenire. 

 

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