#Venezia74 – DRIFT, di Helena Wittmann
Un film astratto. Nel senso più letterale del termine, cioè pronto a rappresentare quell’istante in cui lo spazio muta regole e il mondo fisico diventa tracciato, linea, piano. Nella SIC
In questo istante sto guardando il mare. È là, sullo sfondo, si perde verso l’orizzonte, piatto, lineare, senz’altro movimento che non sia il suo. So cos’è il mare, com’è fatto, quale sia la sua “consistenza”, riconosco il suo modo di procedere, di distendersi e gonfiarsi. Ma fissandolo, a lungo andare, si trasforma inevitabilmente in qualcos’altro, cambia aspetto, grana, cambia persino sostanza.
Ecco, tutta la parte centrale di DRIFT, il primo lungometraggio di Helena Wittmann, è la resa perfetta, la dimostrazione di questa trasformazione della materia. A seconda dell’illuminazione, della posizione, del colore, l’acqua muta incessantemente in qualcos’altro: prima una pelle blu, come se si trattasse di una schiena aliena che si inarca e si quieta, poi un mare di nero petrolio o blu petrolio, come canta il compagno Fiumani, che si agita minaccioso sotto un cielo di piombo, poi onde di sabbia mosse dal vento. E poi quant’altro la nostra mente riesce a figurarsi. Mentre nell’ondeggiare dell’inquadratura, nel rollio del punto di vista, il movimento dell’oceano diventa un’ipnosi irresistibile. Persino disturbante. È in questi lunghissimi minuti, vissuti in apnea, che diviene chiaro come la storia, la traccia narrativa, qui sia solo un labilissimo pretesto. Due amiche che fanno un viaggio insieme, parlano di miti e di etnografia, si separano, partono per direzioni opposte, percorrono il mondo, dai docks del porto di Amburgo all’Argentina.
Sì, è lo spostamento la grande metafora del film, il movimento che segna le scoperte e le separazioni. E i mezzi di trasporto. Si vedono praticamente tutti: l’auto, la barca, la bicicletta… fino ad arrivare alla suprema smaterializzazione del reale, con internet, la conversazione skype, quel flusso digitale che consente di attraversare i continenti alla velocità di una fibra ottica, in un tempo prossimo allo zero. E con una coerenza persino didascalica, la Wittmann lavora proprio lungo i confini di questa smaterializzazione, là dove le cose perdono la loro nettezza, la definizione della loro consistenza, per andare alla deriva, fuori dai contorni, e mostrare tutta la volubilità delle forme, in base alle condizioni della percezione, i presupposti della visione, espliciti o impliciti: posizione, dis-posizione, esperienza, sentimento… Come una specie di saggio di psicologia Gestalt che dia vita a un’opera di arte cinetica, DRIFT esce dalle questioni strettamente cinematografiche, va oltre l’opportunità e l’evidenza di film e autori di riferimento, appigli, antecedenti. Si muove in un altro campo, dai blu di Klein alle linee di Vasarely, dalla suggestione del colore che si mischia agli elementi fino alla piena illusione ottica. Al di là di qualsiasi significato, senso, chiave di lettura, oltre ogni intellettualismo, quello a cui dà finalmente vita la Wittmann, almeno nei momenti in cui riesce a essere radicale fino in fondo, è un film astratto. Nel senso più letterale del termine, cioè pronto a rappresentare quell’istante in cui lo spazio muta regole e il mondo fisico diventa tracciato, linea, piano. Il presupposto è sempre il qui, l’ora, ma il punto d’arrivo è su un altro pianeta. E non è una semplice soluzione estetica o l’applicazione pura di una riflessione teorica. È una condizione di libertà, uno scarto dai condizionamenti della realtà e dei sensi imposti. Alla fine sta a noi, riempire quelle immagini dei sogni e delle proiezioni che vogliamo. O che, molto più nel profondo, ci appartengono.