W for Welles – L’immagine “moderna”. Il cinema di Welles, le metafore di Bazin

Cinema e temporalità restano in bilico tra il riscatto del corpo e delle apparenze profetizzato da Bazin e la tragica sconfitta degli uomini che appare nelle pieghe delle immagini wellesiane

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“La prima volta […] che apparve nel cinema un’immagine-tempo diretta non fu sotto gli aspetti del presente (anche implicato), ma al contrario sotto la forma di falde di passato, con Quarto Potere di Welles. Qui, il tempo usciva dai suoi cardini, capovolgeva il rapporto di dipendenza dal movimento, la temporalità si mostrava per se stessa”.

Gilles Deleuze

Scorrono davanti a me alcune straordinarie pagine scritte da Bazin raccolte in Che cosa è il Cinema?: «La morte non è che la vittoria del tempo. Fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita… Il film non si contenta più di conservare l’oggetto avvolto nel suo istante, come, nell’ambra, il corpo intatto degli insetti di un’era trascorsa; esso libera l’arte barocca dalla sua catalessi convulsiva. Per la prima volta, l’immagine delle cose è anche quella della loro durata e quasi la mummia del cambiamento». La morte, il tempo, la vita. E così nel pensiero del grande critico francese, l’essenza, la vera natura del dispositivo cinema sarebbe quella di una macchina capace di redimere i corpi dalla dissoluzione, dalla caducità, attualizzando una nuova forma di vita mediante l’immagine in movimento, «salvare l’essere mediante l’apparenza». In questo modo la contingenza, l’effimero, il transitorio, il divenire del mondo possono trovare attraverso l’occhio del Novecento uno sguardo messianico, un momento di redenzione. Nell’epoca della riproducibilità tecnica quello che le arti figurative e plastiche hanno cercato di produrre attraverso la mimesis si realizza con le macchine di Edison e dei fratelli Lumière.

Tuttavia è con Quarto Potere di Welles e i primi film della modernità – La regola del gioco, Ladri di biciclette, Paisà – che il cinema mostra per la prima volta un’immagine impregnata essenzialmente di temporalità. Ed è sempre Bazin, molto prima di Gilles Deleuze, a dirci come le immagini in profondità di campo, i piani-sequenza e le inquadrature grandangolari wellesiane siano immerse nelle stratificazioni del tempo, abitate da fantasmi, attraversate da presagi di morte. Cinema, mortalità e temporalità restano in bilico tra il riscatto del corpo e delle apparenze profetizzato da Bazin e la tragica sconfitta degli uomini che appare nelle pieghe delle immagini-tempo wellesiane. Una «visione che si potrebbe definire infernale poiché lo sguardo dal basso verso l’alto sembra venire da terra, mentre i soffitti, precludendo ogni fuga interna alla scenografia, completano la fatalità della maledizione. La volontà di potenza di Kane ci schiaccia, ma è a sua volta schiacciata dalla scenografia. Per mezzo della macchina da presa, siamo in qualche modo in grado di percepire lo scacco di Kane con lo stesso occhio che ce ne fa subire la potenza». Le immagini distorte, cupe e tragiche di Quarto potere, L’orgoglio degli Amberson, Rapporto confidenziale, Othello, Macbeth, La Signora di Shangai, L’infernale Quinlan si tingono così di nero, di terra e fango. Arkadin, Macbeth, Quinlan, Kane, George, Mike, Otello affondano lentamente nelle sabbie mobili, traghettati verso l’inferno da un flusso primordiale di un mondo in putrefazione dove pulsioni arcaiche e originarie mordono i personaggi in una presa devastante.

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L’orgoglio degli Amberson

Il cinema della modernità è segnato in modo indelebile dalle macerie della Storia, dalla tragedia disumana, indicibile e irrapresentabile di Auschwitz, Hiroshima, Nagasaki. Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson mostrano dei mondi in decomposizione come un veggente presagisce il disastro imminente. «Nel 1939 il cinema parlato era pervenuto a ciò che i geografi chiamano il profilo di equilibrio di un fiume, cioè a quella curva matematica ideale… Raggiunto il suo profilo di equilibrio, il fiume scorre senza sforzo dalla sorgente alla foce e cessa di scavare ulteriormente il letto. Ma sopravviene qualche movimento geologico… modificando l’altezza della sorgente; l’acqua lavora nuovamente, penetra nei terreni sottostanti, s’immerge corrode e scava. A volte, se si tratta di strati calcarei si disegna tutto un nuovo rilievo incavato quasi invisibile sull’altopiano ma complesso e tormentato… ».

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Ombre Rosse (1939, John Ford)

Questa forma di linguaggio figurato, l’uso consapevole e originale della metafora di Bazin, fa balenare nel lettore un’immagine del cinema moderno come si trattasse di un colpo d’occhio della cinepresa. La deviazione di percorso, il movimento sotterraneo, porterà il cinema dall’equilibrio stilistico raggiunto dal découpage classico alla caméra stylo, al cinema d’autore, alla Nouvelle vague.
In questo modo non sembra così paradossale accostare il nome di John Ford a quello di Welles. Non a caso le metafore baziniane e le immagini wellesiane possono intrecciarsi anche partendo da un capolavoro del cinema western come Ombre rosse, il figlio eletto di Nascita di una Nazione. «Ombre rosse dà l’idea di una ruota così perfetta da poter restare in equilibrio sul proprio asse in qualsiasi posizione la si metta» (Bazin). Gregg Toland, geniale operatore e direttore della fotografia, dopo aver prestato la sua abilità tecnica a Wyler e Ford (entrambi molto amati da Bazin), affiancherà Welles nella sua opera prima. Lo stesso regista confesserà in seguito: «soltanto una volta ho subito l’influenza di qualcuno; prima di girare Quarto potere ho visto Ombre rosse una quarantina di volte. Non avevo bisogno di prendere esempio da qualcuno che aveva qualcosa da dire, ma da qualcuno che mi mostrasse come dire quel che avevo da dire. Per questo John Ford è perfetto».
Solo adesso mi rendo conto che ricordare il western di John Ford appare il modo migliore per concludere questo omaggio alle immagini di Welles e alla scrittura di Bazin.

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