Where Are You, di Riccardo Spinotti e Valentina De Amicis

Presentato in Histoire(s) du cinéma a Locarno 74, in occasione del Pardo alla carriera Dante Spinotti, il secondo film del figlio Riccardo Spinotti e Valentina De Amicis. Una narrazione per immagini

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«I don’t take pictures. I make pictures». La fotografia come creazione disperata di spazi della memoria, del sentimento, della visione. Il cinema che testimonia la creazione e la riformula in simulacro. Immagini che registrano e riproducono uno spasmo vitale. La macchina da presa sempre mobile, meravigliata, spiazzante. Lo sguardo che compone le danze del mondo, dei corpi, i colori, le luci, le storie e la storia (del cinema). C’è così tanto immaginario accumulato in Where Are You di Riccardo Spinotti e Valentina De Amicis che parrebbe quasi un insulto impegnarsi a scarnificarlo. Un film che è bello nel suo mistero già svelato, nei suoi sogni già proiettati. Un celebre fotografo non riesce più a trovare la sua compagna e nel cercarla si perde nei meandri della psiche. Vi trova il rapporto mimetico e competitivo col padre pittore. L’amore-odio per il digitale e l’irrimediabile smaterializzazione di tutto e tutti. La musa perduta e il femminile ritrovato. Blow-up, la Bardot, la musica francese, la spiaggia. Anche a voler fare elenchi, ci perderemmo a nostra volta.

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Where Are You è un’opera che andrebbe seguita nel suo flusso, un rabdomantico rituale, una sacra rappresentazione, senza pretendere che vi si narri una storia. Come Malick, crede molto più alle immagini che alle persone. Le voci – fra cui quella mitica e rassicurante di Anthony Hopkins, qui in amichevole partecipazione – sono lontane, sommerse, perenni. I personaggi sono spettri di altri personaggi. Ma sono fantasmatiche anche le visioni possibili del presente umano, come il passato che persiste e il futuro da inventare. Fotogrammi proveniente dai fosfeni, illustrati dal compianto Roberto Calasso nell’ultimo Allucinazioni americane (Adelphi, 2021). Immagini mentali, entità che vivono, si sviluppano e scompaiono negli occhi di chi desidera vedere. E in quel territorio rimangono: fugaci, spesso parziali, mutevoli. Mentre le immagini devono presto diventare qualcosa di formato, compiuto, persistente. Ecco perché le proiezioni. Cinefilia come atto di volontà che riordina il caos della vita. L’icona ne è il mezzo. Il simbolo lo strumento.

Nicholas ha bisogno di credere che ciò che fa non è vano. Che il creare è di per sé un risultato. «You asked what I’m doing but the question is: why am I doing? Why am I working? Because I can». Atto di forza, segno di un passaggio. Imprimere immagini su pellicola, registrarle su qualsiasi supporto, diventa l’ennesimo tentativo di bloccare l’ombra sul telo bianco prima che scappi. Carpirne il segreto portandolo alla luce del sole. Renderlo innocuo e non lasciare che ci consumi nel sonno. Per questo la realtà iperconnessa deve diventare connessione iperreale. Ciò che vedo mi deve appartenere quanto ciò che penso. «Everything is personal. I’m a person». Quindi anche l’espressione è personale. Ma al tempo stesso è di tutti. Così la condividiamo e la lasciamo andare, sperando che gli altri vedano ciò che noi abbiamo visto. Così come ogni cosa è anche doppia: maschile e femminile. «It’s ok to be lost». Ma non essere uno. Non vale se si è soli. Il fotogramma raddoppia il reale se c’è almeno una seconda persona a specchiare ciò che ha creato la prima.
I registi orientano i propri sforzi nell’alimentare un’ossessione collettiva eppure soggettiva. Where Are You (senza punto interrogativo perché la risposta conta meno della ricerca) contiene in sé almeno un’altra domanda che ci facciamo da tempo: il cinema è morto? Forse, se continuiamo a percepirlo, resiste. Forse di per sé non è mai esistito se non nel suo pubblico, nel suo ripetersi. Nelle immagini sognate. Importa poco se una critica superficiale taccerà il film di estetica videoclippara. Il cinema è venuto prima e si alimenta di tutti i suoi figli come un (eterno) moderno Crono. È un caso se proprio il tempo (e non il movimento, ci perdoni Deleuze) sia l’elemento fondante del racconto per immagini? «Un film prima di essere una storia è un ritmo», chiosava Rossellini. E non erano ritmo i film di Fellini, che si basavano più di ogni altra cosa sulle ombre e la loro colossale messa in scena? Finché ci sarà un vuoto da riempire, un telo bianco, uno schermo, sarà impossibile fermare le proiezioni. Così sarà nei secoli dei secoli. Il cinema è morto. Viva il cinema!

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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