White Plastic Sky, di Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó

In una Budapest distopica si snoda il dramma di un marito che non accetta la dipartita (volontaria) della moglie. Un film troppo squilibrato, seppur pieno di spunti. Encounters

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Il White Plastic Sky del titolo del lungometraggio d’animazione ungherese, alla Berlinale nella sezione Encounters, è quello di Budapest. La cupola trasparente separa la citta’ da uno sterile deserto. All’interno, la vita dei cittadini procede placida fino ai cinquant’anni, quando lo stato si appropria del loro corpo. O anche prima del mezzo secolo, come nel caso di Nora. A trentadue anni, stufa della sua vita, si sottopone volontariamente all’intervento che precede di poche ore il trapasso. Suo marito, uno psichiatra, rimane senya parole. Proprio lui che per tutta la vita ha preparato le persone a quel momento, non riesce a rassegnarvisi. Penetra, così, nella struttura dove hanno portato sua moglie e scopre in cosa consiste concretamente quel sacrificio: gli esseri umani vengono trasformate in piante che forniscono il nutrimento per tutta la popolazione. Sua moglie è stata già innestata, ma rimane qualche speranza di salvarla.

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Come si capisce da questo piccolo riassunto della prima parte della trama, White Plastic Sky è un film pieno, denso di spunti. Questi si organizzano nel primo atto attorno a due linee di forza: quella umana della drammaturgia e quella macchinica dell’ambientazione. Questo dualismo si trasmette anche alla componente visiva, con un’animazione 2D, simile al rotoscope, utilizzata per i corpi umani, mentre città, deserti e strutture sono modellate in 3D. Una dicotomia difficile da gestire, che riesce a trovare nei momenti di equilibrio un grande impatto visivo, molto immersivo, mentre in altri risulta straniante.

Mentre i personaggi di White Plastic Sky cercano disperatamente un equilibrio ormai perduto per sempre, lo stesso film cade vittima di questo squilibrio. Il primo atto ci introduce in una società che sembra rifarsi a Ritorno dall’universo di Stasilaw Lem, mentre sotto la superficie si snoda una paranoia che strizza l’occhio a Philip K. Dick. Diventa quindi frustrante quando White Plastic Sky vira verso una trama più melodrammatica e intima, lasciando alle spalle il mondo di cui ha raccontato regole e dinamiche. Allontanatisi dalla città, la narrazione fatica sempre di più, consegnando allo spettatore un melodramma fiacco, che affronta timidamente una situazione riassumibile modificando un famoso motto: My body, his choice. Il finale, allora, non può che risultare insoddisfacente, come in una discussione in cui non sia possibile trovare una sintesi, ma in cui deve esserci per forza un’ultima parola.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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