ZEBRA CROSSING. Come uscire dalla crisi post Covid-19?

La crisi economica scatenata dell’epidemia morde ma è possibile trovare soluzioni per uscirne o almeno conviverci per i prossimi tempi. Zebra Crossing ne ha discusso con tre attori sul campo

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Durante lo scorso maggio il direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera ha scritto una lettera ai protagonisti mondiali della “film industry” che è apparsa ad alcuni un po’ come un drammatico SOS riguardo le sorti del più importante festival di cinema italiano. La mossa del direttore ci interessa per la prossimità con le dinamiche di tutti gli eventi live che hanno sempre percorso la penisola. Non possiamo giudicare l’azione di Barbera senza ovviamente pensare all’annus terribilis 2020, anno di continue cancellazioni di festival, di fiere, di concerti e di sfilate di moda, e sicuramente il virus porta una riflessione sul futuro di tali eventi per forma e utilità.

I dati pre e post-virus parlano chiaro: il solo settore fieristico italiano è un affare da 200.000 espositori e 20 milioni di visitatori all’anno, per un giro di 60 miliardi annui. Il sistema moda conta circa 82 mila imprese attive e circa 500 mila occupati per un giro di 70 miliardi annui. Si capisce quindi come lo stop dato dall’epidemia anche solo a due “attori” del genere sia un macigno sull’economia nazionale. Infatti al momento in cui scriviamo i numeri di questa crisi sono i seguenti: per ora il settore fieristico non può pianificare un calendario e l’inattività porta ad un calo di fatturato pari a 80% del normale introito, con circa 140 fiere posticipate o cancellate e innumerevoli service di allestimento fermi e in netta crisi. Prendendo per esempio le sole Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna il danno è di oltre 700 milioni, che arriva al miliardo considerando l’indotto. Il sistema moda invece prevede un calo dei consumi di 15 miliardi e una riduzione dei ricavi del 50% (al momento è del 20%). Si ha il concreto rischio di non riaprire per circa 17mila negozi, compresi i fast fashion e i grandi magazzini.

Abbiamo chiesto un’opinione a Stefano Balossi, Head of Digital per il Salone del Mobile di Milano, Claudia Vanti, fashion designer, docente IAAD e ricercatrice per brand come Fashion Box, Samsung e Midea Italia, e Barbara Gasperini, organizzatrice del festival PianoCity di Milano.

Il design e il Salone del Mobile

“L’assenza del Salone si sente ed è strana. Al momento stiamo facendo sacrifici come tutti dato che il virus ha sensibilmente colpito il mercato del nostro settore”, dice Stefano Balossi, che però aggiunge che non sarebbe impossibile organizzare un Salone del Mobile. Infatti “il Salone copre 110mila mq e porta 200mila persone. Oggi dovremmo portarne la metà. Noi possiamo anche farlo, ma il problema è proprio portare la gente al Salone tramite i mezzi pubblici, e anche monitorarli all’ingresso quando arrivano. Forse manca una guida per quanto riguarda il settore fieristico. Stiamo aspettando linee dallo Stato per il nostro settore e dalla OMS per un metodo di cura. Forse dovremmo iniziare a pensare di convivere col virus. D’altronde in Cina stanno ricominciando a fare le fiere”. Ma come chiesto da Barbera la questione resta cosa fare per non perdere i propri clienti. Balossi non chiude alla digitalizzazione ma fa un discorso cauto: “Pensiamo che non sia possibile sostituire il Salone con un suo clone totalmente digitale. Bensì sia meglio attuare una ‘digital transformation’ di alcune parti del Salone”. In pratica non si vuole andare verso la “fiera virtuale” (soluzione che per esempio è stata adottata in Svizzera per Art Basel) bensì: “I clienti, le aziende, devono fare riferimento ad un portale e poi debbano poter usare strumenti digitali per implementare la realtà dei loro stand. Tutte soluzioni che il Salone sta ipotizzando, sicuri di una cosa: non si può sostituire il tatto del design di un mobile con l’omologo virtuale”.

Quindi mettendo insieme delle linee guida da parte delle autorità con idee chiare su cosa usare della tecnologia potrebbe essere il modo per affrontare la crisi. D’altronde il virus ha accelerato una spinta verso il digitale che non si era vista prima. Ma su tale spinta Balossi, che proviene come formazione dal mondo dei videogiochi, ha le idee chiare: “Se rendessimo il Salone completamente virtuale perderemmo la percezione. Abbiamo abbastanza paura di una esasperazione digitale resa possibile dalla attuale capacità tecnica. Non siamo onestamente convinti della totale gamification alla Fortnite, perché non si può sostituire la realtà. Il digitale deve essere inclusivo e mai sostitutivo. Per questo motivo pensiamo di sviluppare strumenti digitali adatti per implementare l’esperienza dell’espositore. Il Salone sa bene che i mobili non possono essere presentati senza uno stand fisico. L’esperienza che diamo al Salone va oltre il mero dato digitale, come potremmo avere in una fiera virtuale. Lo stand fa parte della presentazione del mobile, ed è espressione della creatività. Si pensi solo al lavoro che fa da anni Laviani per Kartell”. Una crisi del genere, forse inaspettata, ha delle importanti conseguenze sia a breve che a lungo termine, e comporta sicuramente un periodo di assestamento, come ci dice Balossi: “La normalità tornerà tra due o tre anni. Nel frattempo potremmo andare verso una fiera con meno gente, creando quindi una selezione dei visitatori e chiedendo loro di confermare la reale necessità di partecipare. Un sistema del genere valorizzerebbe la community ma avrebbe la ovvia conseguenza di alzare i prezzi. Il rialzo toccherebbe tutti i passaggi, dall’accredito ai trasporti dall’estero alle sistemazioni durante i giorni di fiera”. Il concetto di community è fondamentale in questo passaggio storico. Balossi aggiunge: “Si svilupperà uno strumento digitale da affiancare a chi espone per dare supporto al loro lavoro. Valorizzando i brand che hanno reale necessità”.

La moda e le fashion week
“Il settore moda non può essere immateriale” dice Claudia Vanti facendo bene capire come servano punti fissi. Salvare l’esperienza sensoriale è uno di questi, sia come “esperienza” sia perché legata ai “sensi”. Per Vanti la totale digitalizzazione potrebbe uccidere tutto questo. “Nella moda esiste sempre la manifattura che ha la sua, più o meno forte, artigianalità. Il virtuale potrebbe essere utile solo per una realtà parallela a quella fisica. Quindi solo come fatto culturale ma non come realtà tout court. A Londra a settembre si avrà la prima fashion week totalmente digitale ma è ovvio che gli abiti sono comunque fisici e non si prescinde da questo. Lo streaming è interessante nella misura in cui rende giustizia al prodotto fisico”. La mediatizzazione totale quindi non è una strada.
“Se prendiamo gli eventi live per eccellenza della moda, cioè le sfilate, la situazione è particolare, perché se anche il pubblico delle sfilate è limitato, dato che è composto soprattutto da buyers e da appassionati, esso comunque amplifica quello che si può definire un rito. C’è infatti una ritualità che conferma in modo quasi tribale quell’evento formato dall’ambiente, dalla musica e da quello script che sta sotto alla messa in scena. Si pensi all’ultima sfilata di Balenciaga previrus con quei riferimenti precisi ad un plus di creatività & costi”.

Questo chiarisce come la messa in onda di sfilate senza pubblico avrebbe sicuramente qualcosa di meno del normale. “La mediatizzazione è tecnicamente fattibile ma a scapito dell’esperienza, laddove l’esperienza non può essere sacrificabile perché parte integrante del tutto. Se per esempio prendiamo la capacità tecnica di stampare in 3D i propri vestiti questa si può tecnicamente fare ma avrebbe senso solo nel design industriale e non nella moda. La moda ha un valore aggiunto che vede un mix tra competenza industriale e capacità manifatturiera molto elevata. La stampa in 3D va bene per prodotti di H&M ma non per Dior. E anzi al contrario la sostenibilità va verso il recupero di processi artigianali e tradizioni locali che sono di fatto il contrario della massificazione”. Anche per Claudia Vanti le conseguenze di un simile periodo sono profonde. “A causa del virus qualcosa cambierà sicuramente. Sia per la progettazione che per i metodi produttivi. Lo stop ci dice che un sistema moda che si regge sulle date a ciclo continuo è un problema. La moda forse non regge più queste tempistiche, cioè le 4 uscite all’anno di cui 2 precollezioni. La prima conseguenza è stata che le precollezioni sono saltate, ma il nodo sta nella programmazione delle uscite. Chi è grande e ha la forza di farlo può saltare due precollezioni, ma le aziende medio-piccole se saltano anche un’uscita rischiano il fallimento. E a dire il vero sono dolori pure per i grandi che si sono visti saltare il lavoro di marzo e aprile per andare in negozio a luglio”. Chiaramente la mancata uscita implica costi che non vengono ripresi dalla vendita e una conseguente crisi per tutta la filiera. “Il punto sono veramente le innumerevoli aziende medio-piccole che devono lottare per non sparire. E non è ipotizzabile una moda underground come esiste un cinema underground. La moda underground non è inserita nell’ambito industriale quindi non si entra nel circuito vendita. Le piccole collezioni indipendenti vivono solo in luoghi in cui esistono delle sottoculture, ma si deve stare attenti lo stesso. Perché esse non sono prive di sfruttamento di manodopera (a causa appunto dei bassi costi). Per questo la moda si deve rapportare al mercato. Al momento si ha una tale frammentazione che chi compra va subito verso il mercato, con le modalità di presentazione imposte dal calendario. Il calendario però viene fatto solo da chi può imporlo. Quindi sono i Gucci e gli Armani che dall’alto possono calare un’intuizione riguardo la riduzione dei ritmi”.

La musica e PianoCity
A maggio Milano ha provato a reagire. Un segnale forte è arrivato da un piccolo (neanche troppo) ma importante festival che da anni porta la musica in tutte le strade e le case milanesi: PianoCity. Anche Barbara Gasperini resta dell’idea che non si possa sostituire l’esperienza dal vivo: “Intanto lo abbiamo chiamato Pianocity Preludio perché è un progetto comunque diverso dal tradizionale Pianocity, con la sua importante dimensione dal vivo. Questa dimensione è imprescindibile perché sta al cuore dell’idea di PianoCity. Infatti abbiamo voglia di metterci in gioco nuovamente in autunno e sfidare il virus con una edizione di PianoCity normale, in cui si possa stare insieme a sentire i concerti dal vivo. L’idea di calore umano nella musica deve essere assolutamente mantenuta”. Nonostante ciò Pianocity Preludio ha organizzato circa 60 concerti di pianoforte in streaming: “La riflessione che abbiamo fatto è stata che era più importante dare un segnale per la ripartenza della città, piuttosto che aspettare. Gli house concerts sono la prima e più importante caratteristica di PianoCity, ed è sempre bellissimo chiedere ai cittadini di aprire le porte di casa per ospitare perfetti sconosciuti rispettosi dello spazio offerto, tutti accomunati dalla passione per la musica. Ma ovviamente non abbiamo potuto. Quindi abbiamo invitato gli artisti, già previsti dal programma preparato per questa edizione, a suonare da casa propria in diretta streaming a beneficio di chi potesse collegarsi. Lo streaming ci ha sicuramente permesso di aprirci ad un pubblico più ampio e già solo la notte del sabato (il festival si svolge sulla durata di un weekend da venerdì a domenica NdR) i concerti di Ludovico Einaudi e Chilly Gonzales hanno fatto un reale botto di ascolti online.”
Questo per dire che, se anche il contesto è differente (ma non di molto) la reazione alla crisi è possibile. Basta rimodellare forse. “I concerti serali alla Villa Reale si potevano sostituire solo con lo streaming. Non era pensabile portare tutta quella gente così vicina seduta sul prato della Villa. Da qui l’idea di fare un ‘Preludio’ in streaming come qualcosa che poteva crearsi solo grazie alla scusa di un virus come questo. Il nostro festival nasce per raccontare la città, portare la musica in luoghi, come abbiamo sempre fatto insieme al Comune, all’Assessorato e al Polizia Locale e come comunque siamo riusciti almeno a ricordare grazie alle due iniziative di PianoTandem e PianoRisciò”.

Lontano dalla massa
Una conseguenza interessante dell’epidemia è la riconsiderazione dei volumi, in tutti i sensi. La quarantena ci ha fermato, e per un momento i volumi di traffico urbano ed extraurbano sono calati, con l’azzeramento del traffico aereo e ferroviario. Questo è uno dei molti esempi possibili di nuovi volumi post-Covid ma è utile come metafora comune di elaborazione del danno. Ripensare le quantità, ripensare le velocità, di spostamento, di produzione. È un tema comune a tutti gli ambiti. Dalla quantità di persone presenti ad un concerto dal vivo alla settorializzazione verso l’alto del mercato di un brand come Cucinelli. A riguardo Claudia Vanti ci ricorda che “forte della sua nicchia di mercato Cucinelli è un brand percepito come esempio virtuoso che elargisce bonus ai propri dipendenti. Ma la sua è alta qualità a prezzi alti per un pubblico alto”. Quindi meno volumi ma più consistenza. Ancora Vanti: “Il prodotto di bassa qualità per le masse deve per forza prevedere oggi l’evoluzione dei processi produttivi (soprattutto in direzione del digitale, ora solo ipotetica). Si uscirà dalla crisi se si arriverà ad una nuova progettazione dei tempi di lavoro”. Questa riconsiderazione dei vari volumi possibili è simile a quella che potrebbe adottare il Salone del Mobile in relazione ad una prossima selezione all’ingresso come detto da Balossi. Non siamo lontani quindi dal concetto di fidelizzazione di una community che potrebbe essere stato il terreno su cui PianoCity ha giocato il suo ritorno sulle scene nonostante il virus. Meno volumi ma più consistenza. Un’idea per la Mostra del Cinema di Venezia?

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