SPECIALE "Le regole dell'attrazione", di Roger Avary – La ridondanza dello stile

Avary sembra rimasto intrappolato negli andirivieni temporali di “Pulp Fiction”, ma ci dà come l'impressione di concepire il cinema come un affare di forme svuotate di ogni passione, un delitto insomma da perpetrare ai danni di corpi che vengono programmaticamente massacrati in nome di un cinismo baro e irritante.

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Nel cinema di Le regole dell'attrazione si intravede il ritorno di uno sguardo che avevamo perso a inizio anno Novanta, nel cavò di una banca graffiato da pareti imbrattate di sangue. Era la mascheratura rituale/carnevalesca di Killing Zoe, per dirci di una delle due anime di Pulp Fiction (appunto quella di Roger Avary) e delle astrazioni gratuite e grandguignolesche di corpi visti come carne al macello, nella stilizzazione roboante di uno sguardo ipervitaminizzato, accelerato, ma vuoto, incapace di produrre oasi emozionali di alcun tipo. Ne Le regole dell'attrazione in questo senso Avary si immette nuovamente all'interno del genere, praticando almeno apparentemente il teen movie tradizionale (la presenza dei tre giovani protagonisti), ma sin dalle prime sequenze il regista americano inizia ad intarsiare sulle crepe della narrazione tradizionale pure escoriazioni divaganti (l'inizio che altro non è che la fine, i continui rimandi temporali da una dimensione all'altra del racconto) che dilaniano la temporalità in fraseggi sclerotici e posticci. In questo senso la presentazione iniziale dei protagonisti (fermo immagine, macchina del tempo che frantuma lo sguardo in rigagnoli impazziti di frame, disperdendosi orizzontalmente lungo la prospettiva) corrisponde alla rinuncia ad ogni tipo di sincerità e di immediatezza, per abbracciare invece una costruzione a priori indisponente e contorta. Avary sembra rimasto intrappolato negli andirivieni temporali di Pulp Fiction, ma ci dà come l'impressione di concepire il cinema come un affare di forme svuotate di ogni passione, un delitto insomma da perpetrare ai danni di corpi che vengono programmaticamente massacrati in nome di un cinismo baro e irritante. Non è allora un caso che Avary abbia scelto interpreti famosi per le apparizioni televisive (è il caso del Van Der Beek di Dawson's Creek) con l'intenzione di smontare la loro fisicità costituita/riconoscibile, destituendola però di ogni vera fascinazione. Sotto questo profilo il regista sembra essersi venduto alla logica mercenaria e mortifera del testo di base (uno scritto del sopravvalutato Bret Easton Ellis di American Psycho) dal quale echeggia una sorta di vero e proprio disprezzo nei confronti dei corpi raccontati (quello della giovane Lauren, ma anche di Paul, il bisessuale del gruppo), come se lo sguardo si fosse ormai ridotto a oggetto mortuario e avvilente che non ha mai il coraggio di raccontare veramente ciò che c'è al di là dei singoli corpi e delle loro triangolazioni. Sotto questo profilo si avverte allora il colpevole e premeditato distacco da un cinema vivo e passionale, per uno che invece ama compiacersi di sé e del suo ridondante stile fatto di stilemi già vecchi negli anni Settanta (split screen, spezzettatura del frame, esattamente come accade nel costruitissimo e per questo poco riuscito Wonderland), capace poi di ingannare lo spettatore con immagini di suoni (The End of The World Party che scandisce l'overture dell'opera) e di viaggi (quello artefatto che conduce Victor in Europa) che rappresentano la vera pietra tombale di ogni libertà filmica. La furbizia di un'opera come questa (davvero una delle più pericolose e malsane dell'anno) è allora tutta racchiusa nella ghignante prosopopea di un cinema immorale e profondamente stupido, quasi da denuncia nel suo appropriarsi di continuo delle nostre sensibilità, riducendole a brandelli.

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