La verità e l'amore – "The Village", di M. Night Shyamalan
The Village diventa l'ultima metafora di un nuovo modo di credere nel reale, un vero e proprio atto di fede in un soprannaturale laico e materico che si può conoscere solo chiudendo gli occhi, sfidando la mistificazione di ogni immagine. Oltre lo sguardo i corpi hanno bisogno di sentire-ascoltare-toccare le cose per comprendere e capire chi sono.
Cosa si conosce quando si guarda? E i nostri occhi ci permettono ancora di conoscere la verità? O meglio: è ancora vero che "gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi", come amava ricordare qualcuno? Certo, potrebbe sembrare curioso iniziare a parlare di The Village, l'ultimo capolavoro di M. Night Shyamalan, riflettendo sul titolo di un altro capolavoro diretto più di trenta anni fa da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (il film in questione è ovviamente Othon). Eppure scorrendo le inquadrature di The Village, e di tutta la filmografia del regista di origine indiana, ci si accorge facilmente di come Shyamalan capovolga l'adagio straubiano, e il suo cinema non sia altro che una fuga verso il non-visto. Quasi una disperata ricerca di ciò che passa di striscio lungo i margini di ogni inquadratura, di tutte quelle bugie visive che avvolgono apparenza e realtà.
Ecco allora che The Village diventa l'ultima metafora di un nuovo modo di credere nel reale, un vero e proprio atto di fede in un soprannaturale laico e materico che si può conoscere solo chiudendo gli occhi, sfidando la mistificazione di ogni immagine. Oltre lo sguardo i corpi hanno bisogno di sentire-ascoltare-toccare le cose per comprendere e capire chi sono. E il cinema di questo trentaquattrenne regista che "firma il visibile" con il tocco di Hitchcock e la profondità di Antonioni è una lunga galleria di corpi/cuori rivelatori: dallo psicologo Malcolm Crowe de Il sesto senso, che capisce la sua morte quando "tocca" la sua vita, al David Dunn di Unbreakable, che "sente" la verità del suo corpo – ricordate la straordinaria sequenza di percezioni sensoriali sprofondate in una stazione della metropolitana? – fino alla protagonista (la bravissima Bryce Dallas Howard) di The Village che deve attraversare il bosco fidandosi solo del tatto e dell'istinto.
Agli inganni di un immaginario colonizzato da simulacri, Shyamalan oppone i suoi protagonisti, uomini e donne pipistrello (ma qui Batman non c'entra, penseremmo piuttosto al recente Devil raccontato dalle penne della premiata ditta Bendis/Maleev…) abituati a sondare il territorio con antenne di cartilagine e neuroni. Creature desideranti che hanno imparato a muoversi in un cinema "squadrato" da ecogoniometri interiori ed a sopravvivere in un sistema di inquadrature che ridefinisce continuamente le sue forme seguendo paesaggi interiori e metamorfosi esteriori. Dunque, è vietato guardare nell'universo di Shyamalan perché le immagini (e quelle dell'America post 11 settembre soprattutto…) sono l'oppio della conoscenza (F for fake ricorderebbe qualcuno…), lo schermo velato fra noi e i nostri desideri, le nostre credenze, il nostro amore di verità.
Già, la verità e l'amore. Sempre e solo la verità dell'amore e l'amore della verità. Alla fine è questa la semplice equazione di The Village, un teorema che possiamo dimostrare solo se chiudiamo gli occhi e ci avventuriamo nel bosco. Riscoprendoci magari bambini innamorati di un sogno (…un altro Duddits pronto a salvarci!) da opporre all'apparenza di questo reale trasfigurato da troppe immagini alterate da paure e giochi di potere. Socchiudete gli occhi e guardate – suggerisce teneramente Shyamalan -, osservate con i vostri muscoli e le vostre orecchie e ritroverete "non un'immagine vera, ma giusto un'immagine". Un punto di vista materico e "resistente" sul mondo, direbbero ancora gli Straub; e, chissà, un giorno vi accorgerete che oltre la siepe il buio è meno scuro di come lo raccontano, e forse quelle "due torri" esistono ancora in altre inquadrature, seguendo altre traiettorie dello sguardo…