1917, di Sam Mendes (e Roger Deakins)

Ambientato durante la Prima Guerra mondiale, è un film che ha perso la propria anima da qualche parte nella perfezione tecnica, nella maniacalità del backstage. Candidato a 9 premi Oscar.

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Ok. Facciamo che nel vostro salotto di casa avete appena scartato un pacco contenente una console nuova di zecca. La collegate al vostro televisore 4K da 55 pollici. C’è anche il subwoofer ovviamente, pronto a essere sparato a tutto volume. Presto vi accorgete che in omaggio c’è un gioco appena uscito, dalla confezione lussuosa. Si intitola 1917 ed è ambientato sul fronte occidentale della Prima Guerra mondiale. La trama del gioco è semplice: due soldati inglesi hanno l’ordine di portare una lettera al generale di un plotone che sta per essere spazzato via dalle truppe tedesche. Per farlo Schofield e Blake, questi sono i loro nomi, devono attraversare le linee nemiche. Il livello di (iper)realismo è altissimo. Seguiamo i personaggi senza mai staccare, siamo accanto a loro in un unico piano sequenza, come fossimo in un survivor movie contemporaneo diretto da un cineasta messicano (Cuaròn, Iñárritu?) e fotografato da Emmanuel Lubezki.  Il gioco si struttura su più livelli, che corrispondono a momenti di difficoltà sempre maggiori. L’imperativo è sempre e solo uno: sopravvivere per consegnare il dispaccio.

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La principale chiave per “entrare” nell’ultimo film di Sam Mendes è proprio quella di prendere come esempio l’esperienza immersiva della playstation. A un certo punto per Schofield le cose si fanno talmente difficili che dopo uno scontro a fuoco cade a terra e sembra morire. Siamo a metà film e lo schermo nero con cui per la prima volta si interrompe il flusso di immagini orchestrate dal direttore della fotografia Roger Deakins sembrerebbe suggerirci che la missione è finita prima del previsto. Fosse davvero un videogame comparirebbe l’avviso se “continuare” o “ricominciare dall’inizio”. In qualche modo la sceneggiatura scritta da Mendes e Krysty Wilson-Cairns decide di premere il tasto “continua”: Schofield dopo essere svenuto riprende la sua corsa di notte nel cuore di un città in rovina tallonato dai tedeschi, una sequenza visivamente molto bella.

Come nel nolaniano Dunkirk, qui abbiamo a che fare con un film di guerra sulla “fuga dalla guerra”, che segue le seguenti direttive: a) non morire, b) portare a termine la spedizione per salvare vite, c) lottare contro il tempo. Per Mendes (e Roger Deakins, di fatto coautore del film) non si tratta di rappresentare la verità della guerra, la sua atrocità, quanto di amplificarne l’esperienza. Del resto non è affatto un film anti-militarista. I tedeschi vengono descritti come fossero i nazisti di Indiana Jones e l’evento bellico è messo in scena seguendo le figure di una natura morta, dove ogni elemento entra nell’inquadratura al momento giusto: colpi di fucile, topi, fango, cadaveri, palazzi bruciati. A scapito della scelta del piano sequenza “ritoccato”, non c’è la minima intenzione di filmare/scolpire il tempo. Domina semmai l’ossessione del movimento, della corsa attraverso lo spazio (del) set. Ed è infatti un film di confini attraversati, di percorsi a zig zag, di linee guida “strategiche”. Il movimento è programmatico. Segue geometrie di storyboard e di trucchi di alta classe, disposti con scaltrezza sul campo (visivo) di battaglia.

Mendes dedica il film al nonno Alfred che ha combattuto per l’esercito britannico nella Prima Guerra e “che ci ha raccontato le storie”. Eppure, paradossalmente, a mancare qui sono proprio le storie, sovrastate dalle modalità del raccontare, dal… come.  Assecondando un automatismo militaresco, 1917 non prevede la possibilità di altri sguardi, né l’esistenza di altri mondi da configurare e desiderare in un fuori campo. Per quanto ambizioso, difficilissimo da realizzare e “stupefacente”, appare senza immaginazione. Come se avesse dimenticato la propria anima da qualche parte nella perfezione tecnica, nella maniacalità del backstage. La recupera in alcuni momenti di sospensione, che hanno un po’ la valenza delle soste ai box, come nella ineluttabilità della morte dissanguata di Blake o nel finale in cui il revenant Schofield contempla le foto di famiglia appoggiato a un albero, fermando finalmente la sua corsa estenuante. Forse la Storia inizia dove finisce il film. O forse, semplicemente, questo non è un film, ma il miglior software in circolazione.

Per portare a casa una missione può anche funzionare. Per il resto dipende, come sempre… dai punti di vista.

Game Over.

 

Titolo originale: id.
Regia: Sam Mendes
Interpreti: George MacKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Colin Firth, Benedict Cumberbatch
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 115′
Origine: USA/GB, 2019

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.28 (72 voti)
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